M’erano sempre parsi mostri. Animali da far vedere chiusi in gabbia alle fiere dei paesi o da esporre, imbalsamati, in locali rustici dove si voleva costruire un’aria fittizia di montagna svizzera, col solito trito cattivo gusto di chi ha il pallino di creare ambienti artificiali. Quel cacciatore dell’Italia Centrale poteva pensare di poter cacciare sul serio volatili come il forcello e la bianca (la coturnice la conosciamo bene), mitici, in certo senso? Così colsi al volo la possibilità di vederli (a sparare neanche ci pensavo): versai per vaglia postale la quota di associazione per la “riserva alpina” (più cara al primo anno), e partimmo per il lungo viaggio. Il posto mi piacque appena entrai nella valle dove la riserva si trova. La strada, lasciata la principale, entrava in una enorme gola dove serpeggiava attaccata ai suoi fianchi, scavandoli, a volte, cosicché la montagna finiva per far da pensilina alla strada, che ci correva dentro e sotto, lasciandoci un enorme vuoto, come se un bruco gigantesco ci si fosse aperto il cammino.