Quello spicchio di luna calante è ancora alta nel cielo ottobrino, anche se ormai le stelle han smesso di brillare lasciando il posto ad un’aurora rossiccia che macchia a oriente i pochi cumuli di nebbie che si dissolveranno con i primi tepori. I larici ondeggiano le loro chiome al fresco vento del mattino e, mentre calzo gli scarponi, un brivido gelato  mi pervade obbligandomi a incentivar l’abito.

 

 

I setter, nel frattempo scesi corrono e si rincorrono consci della giornata che li aspetta pregustando anche loro emozioni e sorprese. Tra poco saranno costretti al “dietro”, finché il tortuoso e lungo sentiero non finirà, allora si avranno libero sfogo all’istinto e all’acume venatico. Quel recesso di monte su cui tante volte son salito risulta sgombro da umani e cani: solo io con i miei setter a godere di quell’angolo di paradiso, come fosse nostro e solo “nostro”. Ad ogni passo si ascolta la vita: i primi tordi squittiscono, mentre la nocciolaia manda il suo grido d’allarme annunciando al bosco la presenza di sconosciuti che, invadendo quel sito ne turbano la quiete pur con tutto il fare prudenziale che ne conviene. E’ come entrar in una chiesa sgombra e percorrer la navata fino all’altare e, ad ogni sosta sentir un silenzio che ti percuote e ti possiede fin nell’animo, facendoti provar ebbrezze non solo terrene. Il tempo passa e i passi si susseguono sul dritto sentiero percorso tante volte, come tanti sono i pensieri, i ricordi che   accompagnano la mente rivivendoli istante per istante nel reale svolgersi delle cose, in attesa che il traguardo arrivi, a liberare da quella catena invisibile i setter che seguono il mio passo. Qui il bosco è già pronto per l’inverno, e il giallo dei larici, pronti a lasciar cadere la  vita, brillano al primo sole in un alternarsi di verde ancora intenso degli abeti. Il sottobosco sembra dipinto da mani sapienti e il rosso acceso del mirtillo contrasta con il rododendro creando sfumature purpuree e lucenti. I setter, ormai liberi s’inerpicano in quell’arena ove preda e predatore vivon tutti i giorni da mane a sera e i forcelli, abituati a salvar la ghirba, hanno ormai imparato la dura legge della sopravvivenza. Si procede nel silenzio più assoluto e mi gusto il movimento dei due setter ormai fatti a quel gioco. Rem, ormai dieci anni ma ancora tanto ardor in corpo, proprio per quelle sue fattezze di setter corto sul rene e con un posteriore possente che gli permette ancora di esprimer se stesso. Rocky un po’ più appesantito, ma metodico nella cerca cui nulla sfugge non andando “quasi” mai fuori mano. Il sole, di traverso, e ancora basso all’orizzonte in direzione del nostro procedere e mi obbliga, ogni tanto ,a incrociar l’ombra di un larice per sfuggire i  suoi raggi, onde sincerarmi della posizione dei due vagabondi.  Il fuggir di un camoscio disturba per un attimo la cerca dei setter, che lo guardano sfilare, riprendendo subito la cerca di quell’usta, di quel filo invisibile che potrebbe svelare quei diavoletti neri intenti al pasto mattutino. Si taglia il monte salendo e valicando larici divelti e ciapere frammiste di vegetazione ove l’attenzione non è mai troppa, per il pericolo di imbucar una gamba e di conseguenza farsi male. Rocky è sopra di me e Rem non si vede, accelero il passo e lo scorgo alla mia altezza un centinaio di metri avanti in mezzo a un piccolo terrazzato contornato da ontani nani. E’ fermo e annusa l’aria come ipnotizzato con il muso alto e gli occhi vitrei che non tradiscono il ben che minimo movimento. Cerco di raggiungerlo abbassandomi lievemente per rimaner nascosto all’eventuale preda, ma prima che possa sistemarmi lo sbatter d’ali mi coglie quasi impreparato. Il gallo si mette in ala rimanendomi dietro ai grossi rami di un larice e, tentando l’impossibile, percuoto quei gialli aghi ormai morti con il piombo a disposizione. Appena esaurita la carica esplosiva un altro gallo s’invola pochi metri più su e me lo godo nel suo volo liberatorio verso un sito più sicuro. Peccato, Rem si sarebbe meritato di abboccar quelle lucenti piume ma, nei suoi anni, già tanti ne ha visti e ne conosce  ampiamente l’afrore. Per la prima volta in vita mia mi sento quasi contento d’aver mancato quella vita in fuga, pur avendo vissuto tutto il contesto della  predazione. Già tanti ricordi piumati addobbano i miei sogni ed i miei pensieri. I galli d’annata sono ottimi in cucina, ma i vecchioni, ci abbiamo provato tante volte, son corvi induriti dal tempo con tanto sapor di resina. L’emozione quella rimane di aver provato intensamente quel sussulto dell’animo che va dalla vista del setter inebriato a quello sbatter d’ali verso la salvezza. Seduto su una roccia ingiallita dal muschio e dal tempo con i setter vicino ci godiamo un piccolo meritato riposo, scambiandoci complici occhiate e carezze ricambiate da tante slinguate, perdendo lo sguardo in quell’infinito teatro che sembra appartenere solo a noi, ove oggi nessuno ne gode l’aria se non gli animali dell’alpe. Ripresa la cerca si passa in riva ad un lago alpino ove i setter ne approfittano per un bagno e un’abbeverata, e sul far del mezzodì si sale un canale che porta a un terrazzo in quota, ove i forcelli amano pasturare. La salita e dura e ripida e ormai la mia primavera è finita: ove le gambe non ce la fanno più si sale con il cuore. Quando spunto, scorgo i due quasi affiancati in ferma e ho il tempo di arrivar loro vicino: li incito alla guidata quando davanti , in mezzo ai mughi, scaturisce una gallina che con il suo tipico chet. chet.. chet..  si fionda a valle inseguita per un attimo dai cani. La seguo nel suo planare oltre un calanco ove solitamente fan rimessa, posto impervio e ripido, e dove i galli vecchi trovan salvezza. Si cerca un posto a solatio per consumar un fugace pasto: gli indumenti bagnati e madidi di sudore han bisogno di asciugare e all’ombra il freddo a quella quota si sente. Divido un po’ di pane e croste di formaggio con i miei amici che crogiolati fra le mie gambe al sole caldo di ottobre si riposano le membra: Rem in alcuni frangenti s’assopisce e russando sembra sognare chissà quale bel sogno che tanto vorrei condividere. Rochy sempre all’erta, sempre attento al più piccolo rumore scruta il monte. Lo sgranocchiar di una pigna da parte di uno scoiattolo su un piccolo abete lo distoglie facendogli curvare più volte lo sguardo con l’intento di capir da quale sito provenga. Con il boccone inchiodato in bocca, guardo estasiato quel piccolo essere che cibandosi e facendo provviste si prepara alla lunga e dura vita invernale e non posso che rimaner ammirato dalla capacità di viver in un così, per noi, ostile ambiente nella stagione fredda. Sui ghiaioni in alto le coturne non si son trovate, nel frattempo il sole s’appoggia a occidente e allora si percorre a ritroso tutto il monte fino a raggiunger quel piccolo sentiero che ci permetterà di scender con più sicurezza. Le prime ombre della sera s’allungano e il cielo scurisce preparandosi ad una nuova notte. Il canto precoce di un allocco riempie di magia quel silenzio solo rotto in fondovalle dal gorgogliare tranquillo del rio, che, secondo al sospirar del vento si attenua e sparisce. Giunto sul viottolo che taglia di netto il monte mi volgo sempre a guardar come fosse l’ultima volta quei luoghi cosi cari e così pregni di ammirazione capaci di crear certe affinità che paion non aver logica se non quella di riempir l’animo di quella pace profonda e piena da non esser capita. L’amico comune che incontri il giorno dopo e ti chiede: com’è andata?.. Preso qualcosa?. Gli rispondo: non ho preso nulla.  Mi richiede: allora perché vai in montagna? . Risposta: se me lo domandi, e perché non lo capirai mai.

Tratto da “I miei amati orizzonti”