Il freddo, ancor più umanamente gelido, di quel febbraio 1944, mostrò in edicola, agli occhi di quei pochi economicamente privilegiati ed ancor più irragionevolmente spensierati, un’autentica primizia venatoria della carta stampata: la miserrima qualità di quell’autarchica carta-pane con la quale “Diana” era costretta a presentarsi in quell’angosciato periodo, non le impedì di magnificarsi mostrando forse le due più belle beccacce mai apparse sino ad allora sulle pagine di una rivista venatoria a grande tiratura.    

Il momento è storico in quanto Roberto Lemmi, per la prima volta nel corso della sua futura, strepitosa carriera artistica, si cimenta in quello che è comunemente considerato il soggetto animale più difficile da rappresentare: la beccaccia. Le infinite sfumature dei colori del suo piumaggio, cangiante col mistero stesso che avvolge ogni caratteristica di questa davvero fatata specie ornitica, le sue abitudini crepuscolari che mal si connubiano con le vitali attività umane e la sua estrema, silvana elusività che la rende di difficile focalizzazione mnemonica, hanno fatto di questo uccello una vera e propria “palestra d’ardimento” per tutta quell’infinita schiera di artisti che, nel tempo, hanno tentato di rappresentarla avvicinandola il più possibile alla mera realtà.    Nonostante quell’edizione di “Diana” fosse, come le altre, penalizzata dal pessimo supporto cartaceo e svilita dalla mancanza degli inchiostri colorati (che forse mai come in quell’occasione sarebbero serviti all’uopo), Lemmi riuscì spettacolarmente nel proprio intento: non gli fu indispensabile il colore per trasporre mirabilmente su carta, con quel suo acuto spirito di osservazione, quel soggetto tanto venatoriamente blasonato quanto pittoricamente “temuto”. Il risultato finale appare ineguagliabile nella sua semplicità, distanziando, con pochi ma nettissimi tratti di china, tutta quella nutrita compagine di artisti che prima di lui omaggiarono pittoricamente la “regina del bosco”.          

Le due beccacce appaiono come fotografate, palpitanti di vita ed immortalate in una delle sequenze dinamiche più tipiche, ma non per questo più semplici da riprodurre, della specie.    Lemmi amerà moltissimo la beccaccia. E l’amerà a modo suo, riproducendola in decine e decine di opere, in tutte le posizioni ed in tutte le stagioni, sotto il sole, la sera, con la pioggia o la neve, con quella maestrìa che nasce solo dalla più profonda conoscenza figurativa e che solo i grandi artisti sanno profondere nei loro soggetti più impegnativi ma nello stesso tempo per loro più affascinanti.       

Remigio “Remo“ Venturini