CACCIATORI DI MONTAGNA, DI BECCACCE E BECCACCINI

Il più felice non è assolutamente chi ammazza di più ne tantomeno chi trova di più e neanche chi ha i cani migliori, il più felice è semplicemente colui che trae il maggior godimento e divertimento nel trascorrere il tempo nel bosco o in montagna dietro la coda del proprio cane inseguendo le prede desiderate…….."magari in solitaria nel più alto rispetto di chi e di cosa lo circonda"

COLLEGAMENTO E ISTINTO di ENRICO FENOALTEA

Foto di Mario Salomone

Il “collegamento” con il cacciatore ormai non è più un grande problema perché in genere i cani di buon sangue sono docili (la pressione selettiva ha dato suoi frutti) e istintivamente sono portati a non allontanarsi troppo dal padrone. E sufficiente soltanto qualche modesto esercizio di richiamo con qualche premio (mai in aperta campagna, ma solo in un luogo recintato) per insegnare un mi­nimo di obbedienza al richiamo. E’ essenziale che il padrone riesca ad imporre al cane la sua “dominanza”, alla quale l’istinto gregario del cane si assoggetta facilmente, stabilendo un riferi­mento definitivo con il padrone.

Purtroppo non credo esistano regole per imporre questo rapporto di subordinazione spontanea: è una dote simile al “carisma”, si possiede ma non si impara.

Una volta stabilita la “dominanza”, il cacciatore nelle prime uscite con il cucciolone deve aver cura di dirigersi (sempre contro-vento) nei posti ove già sa di poter incontrare la selvaggina, in modo che negli “automatismi” del cane resti fissata una certezza assoluta: “andare dove si dirige il padrone, equivale a incontrare la selvaggina”.

Il cucciolo impara con facilità (e non dimentica più) tutto ciò che è conge­niale al suo istinto, e l’addestratore che sfrutta questo elementare principio non sarà mai deluso, perchè il condizionamento non legato solo alla paura della punizione, una volta acquisito è definitivo.

Per consolidare e rendere la relazione tra cucciolo e cacciatore continua ed assidua, questi deve aver cura di camminare sempre molto lentamente, cambian­do direzione solo quando il cane lo osserva, e (anche se non sempre è facile) diri­gendosi spesso nei punti dove il cucciolone può “incontrare” selvaggina, perchè ciò rafforza il collegamento.

Talora il cane esuberante e sicuro dei suoi mezzi, potrà anche tentare il “fuori mano”, ma questa tendenza può essere facilmente contrastata con il cauto utilizzo di un collare elettrico, da usare più come deterrente che come sanzione.

Il cacciatore che va a “servire” il cucciolone, per consolidarne la ferma, de­ve aggirarlo con cautela, molto lentamente, fino a farsi scorgere dal cane fermo e so­lo successivamente avvicinarsi.

E’ controproducente sollecitare il cucciolone a “concludere”, o cercare di far volare direttamente l’animale perchè l’involo provocato induce il cane a “rompe­re”.

Il cucciolone in ferma si trova in uno stato di estrema tensione e qualun­que movimento brusco o rumore improvviso può indurlo a “caricare”: talora basta il fruscio del passo affrettato del cacciatore per “rompere”.

Bisogna tenere presente che il cane durante la “ferma” ricava una sensa­zione di “estasi voluttuosa” dalla emanazione della selvaggina, e se comprende che restando fermo può prolungare il piacere, rinuncerà a “caricare”.

Nella ferma il tartufo freme, la bocca si articola in movimenti ritmici che ri­cordano la masticazione; un eccesso di saliva trasuda dalle fauci come in presenza di una leccornia; l’occhio è sbarrato; un tremore può scuotere la muscolatura.

Durante le uscite nei primi 24 mesi, il cucciolo deve essere lasciato quanto più possibile libero da costrizioni, interferenze, fischi o richiami: quando inizia un “allungo” occorre attendere il suo ritorno e non interferire nelle pause di accertamento; se intraprende un’azione, aspettare la soluzione; se dettaglia, indugia su una “pas­sata” o abbassa la testa, non sollecitarlo. Le apparenti interruzioni della continuità dell’azione rappresentano tentativi di trovare soluzione a problemi che riguardano l’e­manazione e la sua selezione: sono momenti di “studio”, utili alla maturazione.

Lasciato lavorare nelle giuste condizioni (dipendenza dal capo-branco, ma autonomia nella cerca) il cane acquisterà fiducia nei suoi mezzi; riuscirà a organizza­re e metabolizzare le esperienze nel modo più efficace; saprà scoprire strategie ve­natorie adeguate: in una parola riuscirà a “costruire” il suo arsenale venatorio in mo­do da padroneggiare sia le difficoltà del terreno che la diffidenza della selvaggina in­contrata.

In sostanza ritengo che buona regola sia quella di lasciare che ol cucciolo possa lavorare in condizioni possibilmente simili a quelle che si trova a fronteggiare in natura ogni predatore, perché solo così l’istinto sarà opportunamente sollecitato.

A mio avviso, l’intervento dell’addestratore durante la “cerca” è negativo, perchè il cucciolo non si concentrerà più sul superamento delle difficoltà, ma sarà piuttosto attento a non incorrere nelle correzioni dell’addestratore e questa mancan­za di concentrazione può penalizzare lo sviluppo delle risorse del suo istinto.

Del resto a me è sempre apparso improprio che un uomo possa suggerire al cane come deve cacciare: pretendere di insegnare al cane quello che ha già nel suo istinto è velleitario. Il mondo del cane, che noi riduttivamente chiamiamo olfatti­vo, è in realtà molto più complesso, e a noi ignoto.

Personalmente ho sperimentato che sia il metodo di addestramento “pre­miale” sia quello “punitivo”, nel delicato periodo formativo, sono in genere contropro­ducenti, perchè è bene lasciare che il cucciolone sappia trovare da solo l’equilibrio tra sistema nervoso, potenza olfattiva e velocità di cerca, per poter poi esprimere tut­te le più riposte potenzialità del suo istinto.

Nei primi 24 mesi affidare il cucciolo ad un addestratore professionista va preso in esame solo come “extrema ratio”, in mancanza di altre alternative.

Infatti il professionista in genere ha molti “allievi” ed è costretto dalla man­canza di tempo a usare per tutti il sistema “punitivo”, che è adatto alle gare, ma ne­gativo per la caccia in quanto può pregiudicare lo sviluppo delle qualità venatorie.

Inoltre l’avvicendarsi dei padroni nuoce alla dominanza che invece è es­senziale sia esclusiva.

Non si deve dimenticare che l’indole del cane, in conformità alla legge del­la selezione naturale, privilegia forza, voracità, intemperanza, pigrizia, prudenza, vil­tà, fuga, elementi essenziali alla sopravvivenza perchè nel mondo naturale generosi­tà e altruismo sono pericolose dispersioni di risorse: l’opportunismo è il cardine della soggezione al padrone perchè il cane non ha sentimenti, non ha senso morale, non ha coscienza di sè.

La fedeltà al padrone è originata dall’egoismo, cioè dalla certezza che so­lo da lui può ricevere la piena soddisfazione di tutti i suoi istinti, ma poi diviene un legame eterno: una cosa che non ha eguali nel mondo animale.

Il lupo è stato il primo animale ad essere addomesticato sia perchè la sua plasticità neuronale reagisce con facilità alla pressione selettiva, sia perchè la sua gregarietà io assoggetta naturalmente al padrone; la territorialità lo lega al posto in cui vive; la capacità di nutrirsi dei rifiuti dell’uomo giova alla pulizia degli accampa­menti primitivi e !a sua autosufficienza nell’alimentazione (utilizza i rifiuti) non richie­deva cibo (allora assai scarso).

La spinta originaria alla domesticazione del cane è avvenuta in Cina: l’al­levamento era teso a costituire una rinnovabile riserva di carne fresca da utilizzare nelle emergenze alimentari.

Solo in seguito l’uomo ha capito che il cane poteva essere utilizzato in molti modi.

La selezione per renderlo idoneo alla caccia, ha sfruttato l’istinto di ogni predatore carnivoro a cercare la preda.

La “filata” e la “guidata” sono evoluzioni della silenziosa cautela con la quale il predatore si avvicina alla preda per sorprenderla.

La pausa che il predatore fa prima dell’assalto finale è stata resa stabile da un impulso inibitorio che blocca il cane in “ferma” (per dare al cacciatore il tempo di avvicinarsi).

La mia conclusione è che un buon addestramento debba fare in modo che l’istinto venatorio naturale innato possa essere sviluppato dall’esperienza, per esprimersi al suo “top”, in funzione delle esigenze venatorie, ma ciò richiede condi­zioni adatte.

Il sacrificio di tempo, di energia, di passione e di denaro che richiede il pri­mo biennio di caccia, compenserà largamente l’appassionato con la gratificazione emozionale offerta dal lavoro del cane per i successivi dieci anni.

Per questo, con tutte le sue implicazioni (e complicazioni) credo che la ci­nofilia arricchisca l’esperienza venatoria di un immenso valore aggiunto.

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1 Comment

  1. Grande Dottore, ho n bellissimo ricordo di Lei di qualche tempo fa, forse un trentennio, a Lescovac sul piazzale dell’Albergo Atina, ricordo ancora i nomi dei suoi bracchi di allora…nisiulin Garibaldi La Bella Gigugi!!!! Complimenti per l’articolo e la passione che ancora ci mette

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