Foto di Mario Salomone

Foto di Mario Salomone

Il comportamento di tutti gli animali è guidato dall’istinto, cioè da un corredo di azioni e reazioni automatiche, geneticamente fissate, finalizzate all’autoconservazione. Il meccanismo piacere-dolore garantisce la reazione utile e dissuade da quella pericolosa: ripetere ciò che giova alla sopravvivenza provoca benessere, mentre un impulso inibitorio (dolore, paura) dissuade dal compimento di atti potenzialmente pericolosi.

La fissazione degli istinti, cioè il corredo genetico delle specie, sì è evoluta per selezione naturale dei più adatti, attraverso milioni di anni. In natura solo i soggetti dotati delle migliori qualità sopravvivono abbastanza per poter trasmettere í loro geni ai discendenti, perché la lotta per l’esistenza è una guerra di tutti contro tutti che non consente errori. Ogni specie, oltre alla dotazione genetica, possiede una qualche capacità di adattamento che le consente entro certi limiti di adeguare il comportamento in relazione alle condizioni ambientali.

Il cane domestico discende dal lupo, carnivoro predatore, che l’uomo, con la pressione selettiva, ha cercato di rendere adatto a vari usi, attenuando le caratteristiche negative e accentuando quelle funzionali alla specifica utilizzazione. La domesticazione del lupo è stata possibile perchè la sua plasticità neuronale è risultata sensibile alla pressione selettiva, senza toccare i fondamentali tratti istintuali: la territorialità che vincola il cane alla casa del padrone; la gregarietà che lo spinge ad assoggettarsi al padrone (capo-branco); fa socialità che lo lega alle persone con cui vive; l’istinto venatorio del predatore che lo rende adatto alla caccia; la silenziosa cautela con la quale il predatore si avvicina alla preda, che è stata trasformata nella “filata” e nella “guidata” del cane da ferma; la pausa di studio e di concentrazione che precede l’assalto finale alle prede, che ha dato origine alla “ferma”. Anticipando le conclusioni a me pare che nell’addestramento del cane da ferma, la valorizzazione dell’istinto naturale con le sue capacità dì adattamento, sia il fattore più importante per esaltare le qualità venatorie.

Oggi tutti i cani di buon sangue rientrano nello standard di razza per morfologia, stile e ferma, e questo è il risultato di una nuova sensibilità cinofila. La cultura cinofila attuale, fortemente influenzata dalle gare, ha grandi meriti (per il miglioramento dello standard delle razze e per la “cultura” cinofila) ma ha diffuso una sensibilità sulle esigenze di un “dressaggio” concentrato sulla velocità dell’andatura, sulla regolarità dell’incrocio e sulla potenza dell’olfatto: dati questi essenziali per le gare, ma insufficienti per la caccia. Così molti cacciatori scelgono il cane in base a queste caratteristiche dopo una breve prova su animali di allevamento.

Personalmente ritengo insufficiente la sommatoria delle citate qualità per l’ausiliare che dovrà cacciare selvaggina naturale, perché ben altre sono le qualità di un grande al cane da caccia. La grande andatura se non è accompagnata da fulminei riflessi nervosi, da olfatto eccellente e da adeguata resistenza, non è un grande vantaggio. Incitare il cane ad una velocità che non gli è naturale, può non essere controproducente, perché lo sforzo eccessivo può appannare tutte le altre doti venatorie. Naturalmente velocità, potenza olfattiva e “percorso” se non bastano a sostituire il deficit delle più autentiche qualità venatorie, però aggiunte a queste ultime, fanno il fuoriclasse.

La valutazione della bravura di un cane da caccia è così complessa che a mio avviso si può fare solo mettendolo a confronto (possibilmente più volte e su vari terreni) con altri soggetti, di cui già si conosce la qualità: la comparazione sul campo sarà decisiva. Nel confronto, il cane che realizza il maggior numero non di incontri, ma di “ferme utili” sarà il migliore (non in assoluto, ma relativamente a quelli che si misurano con lui, e nelle specifiche condizioni in cui sì svolge la prova). A mio avviso nella valutazione l’attenzione deve concentrarsi su tre caratteristiche: “senso del selvatico”, “facilità di incontro” e capacità di fare “ferme utili”; fondamentali qualità venatorie di un bravo cane da caccia (per il cane da gara il discorso è tutt’affatto diverso).

Per “senso del selvatico” intendo a quell’insieme di qualità che inducono il cane a selezionare di sua iniziativa le zone di terreno dove più alta è la probabilità di “incontri”. In proposito si può ipotizzare che il cane riesca a memorizzare ed organizzare le esperienze precedenti in “modelli di comportamento” complessi, che sulla base delle condizioni meteorologiche, della temperatura, del tasso di umidità, della ventilazione, dell’ora del giorno, della natura del terreno, della qualità delle essenze vegetali, della stagione e delle abitudini della selvaggina, gli suggeriscono di concentrare la “cerca” nei luoghi più adatti.

Personalmente sono convinto che questo complesso “programma di comportamento” si “costruisce” prevalentemente con riferimento alle condizioni ambientali nelle quali il cucciolone ha incontrato selvatici nei suoi primi 24 mesi. La “facilità di incontro” è quella particolare sensibilità del cane nel selezionare l’emanazione “giusta” del selvatico, che gli consente di risalire la traccia olfattiva dopo aver valutato con esattezza la distanza dalla selvaggina, intuendo se essa è in movimento o in sosta, se è in allerta o in stato di quiete: la corretta elaborazione di tutte queste informazioni porta alla “filata” e poi alla “ferma utile”, vero “sigillo” dei cane di classe.

La “ferma utile” è l’attitudine del cane a “costringere” il sel-vatico alla difesa passiva dell’immobilità e del mimetismo, senza farlo involare. II meccanismo di questo fenomeno è oscuro: ma so che sul campo (soprattutto quando la selvaggina è diffidente e “leggera”) il cane che ha questo dono sovrasta tutti gli altri, con una regolarità statistica che esclude il caso fortuito. Ritengo che la distanza alla quale il cane ferma il selvatico, dipende più che dalla potenza dell’olfatto, dalla sua sensibilità nell’arrestarsi prima di provocare l’involo. Ho avuto occasione di vedere che molti soggetti pur dotati di olfatto potente, fermano da molto vicino i selvatici per “costringerli” all’immobilità. Nell’allevamento del cane ho constatato che, mentre la morfologia, le doti atletiche, la ferma e l’olfatto sono influenzabili dalla pressione selettiva (in poche generazioni), le tre qualità venatorie di cui sopra sembrano insensibili alla selezione e si trasmettono ai discendenti con ricorrenza saltuaria e imprevedibile.

Il discorso sulle qualità venatorie del cane deve tenere conto che la relazione tra il cane e la selvaggina è analoga a quella che in natura corre tra il predatore e la preda. Senso del selvatico, facilità di incontro e “ferma utile” sono riflessi condizionati, ma sono acquisiti per adattamento, sulla base d’esperienze presenti nella memoria associativa del cucciolone.

La capacità di adottare la tecnica di attacco appropriata e capace di neutralizzare le strategie difensive della preda, fa parte dell’armamentario genetico di ogni predatore carnivoro (come era l’antenato del cane, il lupo) perché tra gli animali sopravvivono solo quelli che oltre alla dotazione istintuale genetica, possiedono anche una spiccata capacità adattativa.

L’etologia ritiene che questa ultima dote derivi da una plasticità neurologica, che se stimolata da una appropriata esperienza, si perfeziona e si sviluppa sino ai limite delle individuali potenzialità genetiche, a condizione però che ciò si verifichi entro il periodo, assai limitato, nei quale è attiva la “capacità di apprendimento” dell’animale. Mentre nell’uomo la capacità di apprendere si estende praticamente a tutta la vita, nell’animale essa è circoscritta ad un limitato periodo di tempo e con il raggiungimento della maturità si atrofizza: nel cane cessa intorno ai 24 mesi.

Gli scienziati ritengono che in questo periodo una appropriata stimolazione oltre all’arricchimento dell’esperienza provoca aumento del patrimonio neuronale. Perciò se il cucciolone nel primo biennio fa esperienze appropriate, riuscirà ad avere un patrimonio neuronale più sviluppato, sinapsi più attive, con conseguente superiore capacità di fissare e organizzare le esperienze venatorie.

L’apprendistato prima della maturità è comune a tutti i giovani animali. I cuccioli dei predatori carnivori, durante l’adolescenza apprendono dall’osservazione e dall’imitazione dei genitori (o del branco) le tattiche e le strategie di caccia alle prede. Per simmetria inversa, anche le prede apprendono dai soggetti adulti più esperti, le tecniche e le strategie per eludere gli attacchi e difendersi. Ciò fa sì che in natura l’equilibrio tra le specie viventi e tra queste e l’ambiente, sia precario e dinamico, ma assicurato entro certi limiti da una coevoluzione degli adattamenti reciproci tra prede e predatori (attacco-difesa).

In sostanza i valori adattativi che presiedono alla autoconservazione di prede e predatori sono improntati a strategie di compatibilità che legano i sistemi offensivi e difensivi: questa è l’intelligenza” della natura. Per potenziare le possibilità di sopravvivenza, ogni specie, oltre al patrimonio genetico di istinto, sfrutta, come si è accennato, la sua propria plasticità neuronale (che nel cane si esaurisce a 24 mesi circa) per migliorare la capacità di adattamento, ed è quest’ultima che la pone in grado di modificare (entro certi limiti) le tattiche e le strategie genetiche difensive e offensive, adattando al variare delle circostanze, comportamenti più evoluti da quelli innati.

Pensiamo alla correlazione tra il comportamento delle starne e quello del cane che le caccia. La starna appartiene alla famiglia dei fasianidi (ordine dei gallinacei), volatili che, a differenza di tutti gli altri uccelli, non affidano la loro difesa al volo, ma alla fuga di piede, all’immobilità e al mimetismo. L’uomo ha dovuto “inventare” il cane da ferma, perché solo il suo olfatto può localizzare questi selvatici nascosti nella vegetazione, mentre la “ferma” del cane li costringe alla “difesa passiva” dell’immobilità, consentendo al cacciatore di avvicinarsi. Per migliorare la loro difesa, le starne vivono in branco, sostano in terreni adatti, con una vegetazione alta dai 20 ai 40 cm., che pur mantenendole nascoste, consente loro di scorgere i pericoli da una distanza sufficiente per evitare l’agguato. La vita in branco esalta la difesa, non solo perché più “vedette” sono costantemente in allerta, ma anche perché le possibilità di sopravvivenza, aumentano perché il rischio di ciascun individuo va diviso per il numero di tutti i componenti del branco. Inoltre le starne stazionano di preferenza lungo le strade asfaltate e le case coloniche (con gli orti), perché queste zone evitate dai predatori e rapaci risultano sicure.

Sottoposte a pressione venatoria, le starne dapprima cambiano abitudini, sì trasferiscono in altre aree di stazionamento e di alimentazione, e poi imparano anche a “selezionare” i frequentatori della campagna, distinguendo i cacciatori da quelle innocue. Riescono a “riconoscere” (e lasciano avvicinare senza timore) i pastori, gli agricoltori, i raccoglitori di funghi, il bestiame, le auto e i mezzi agricoli: “sanno” che da loro non hanno nulla da temere.

Temono il cacciatore e i cani da caccia, che forse riescono ad individuare con sicurezza, forse perché hanno movenze e andatura più decise e scattanti e perciò diverse, rispetto ai movimenti lenti, scanditi (quasi svogliati) dei campagnoli: una diversità percepita e memorizzata dalle starne. Se sono ripetutamente insidiate esse si rifugiano in luoghi del tutto spogli, dove è possibile avvistare da lontano i pericoli e allontanarsi tempestivamente di piede o di volo, prevenendo ogni rischio. Ma come ogni predatore ha nella sua dotazione istintuale gli strumenti per contrastare gli espedienti difensivi della preda così anche il cane, ha nel suo patrimonio genetico una capacità simmetrica di elaborare strumenti e tattiche per eludere le difese del selvatico ponendo in essere contromisure atte a rendere l’attacco efficace.

Per questo motivo nella formazione del cucciolone vanno evitate quelle forme di addestramento coercitive che possono soffocare o condizionare l’istinto venatorio naturale. Ho maturato la convinzione, confortata (per quanto può valere) dalla mia esperienza, che per la formazione di un grande cane da caccia, oltre alle buone qualità genetiche (tra le quali la capacità di adattamento), sia di fondamentale importanza che il cucciolone sia messo in grado di fare esperienza su selvatici naturali e in ambiente adatto, perché nel biennio formativo, allorché la sua capacità di apprendimento è in evoluzione, egli metterà a punto l’arsenale venatorio appropriato alle condizioni sperimentate. L’esperienza precoce ma “giusta” è un fattore decisivo per stimolare l’accrescimento delle cellule neuronali e delle sinapsi, che concorrono alla “costruzione” di un programma di comportamento esteso fino alla più riposta potenzialità del suo istinto. Con la conseguenza che se l’esperienza è arricchita dalle difficoltà (terreni vasti, condizioni disagevoli, selvaggina scaltra e diffidente) il cane da adulto sarà sempre padrone della situazione e in grado di contrastare, anche in condizioni avverse, gli espedienti difensivi della selvaggina perché lo stimolo delle difficili condizioni formative lo hanno dotato delle migliori qualità venatorie.

Il cane esperto e di qualità saprà concentrare la ricerca nelle zone più adatte; saprà sfruttare l’andamento del terreno e del vento; saprà controllare se l’emanazione è aerea (testa alta) o raso terra (testa bassa); capirà se la selvaggina è tranquilla o diffidente; sceglierà, l’approccio più efficace per fermare alla giusta distanza e senza errori. In condizioni ottimali (terreni facili, vento e tempo favorevoli, selvaggina abbondante, confidente e distribuita regolarmente sul territorio) tutti i bravi cani si comportano abbastanza bene: ma quando le condizioni sono difficili, solo il cane di grande qualità darà sempre soddisfazione.