Oggi, fine ottobre, salgo come il solito su per la mulattiera che è ancora buio. Non vedo un grosso sasso e ci finisco sopra con la mia scassatissima cinquecento. Scendo e vedo che la macchina è sollevata dal suolo. Le ruote posteriori girano a vuoto mentre io le guardo sconsolato. Mi guardo intorno e vedo che sotto a poche centinaia di metri c’è una baita, dove per grazia di dio vedo una luce e uscire un po’ di fumo. Scendo a grandi balzi e ti vedo il pastore seduto sulla soglia che si sta bevendo il suo classico latte col vino.

Gli racconto la mia disavventura e lui per tutta risposta s’infila due dita in bocca ed emette un forte fischio, quasi a voler chiamare un cane. Escono allora dall’antro madre e figlia, due montenegrine grandi e spesse come due armadi. … Secondino, così si chiamava il pastore, dà loro alcuni ordini in un dialetto che non capisco. Ma queste, sollevate le lunghe sottane nere, per meglio camminare in salita, si dirigono svelte alla mia macchina. Arrivate, si posizionano dietro, ciascuna per parte, la sollevano con un colpo di reni, e me la rimettono in strada. Rimango basito, ma contento e ridiscendo da Secondino.

E ora, come sdebitarmi? Gli offro dei soldi che rifiuta. —” In montagna tutti ci aiutiamo, questo sono sicuro lo sai e lo fai anche tu, anche se sei un cittadino. Vedo che vai a caccia con il cane alla piuma: Sono contento che così non mi prendi i miei camosci”

Mi viene in mente di dirgli che è un po’ di volte che vedo un grosso becco dove stanno i forcelli, che magari lui non pensa di cercare proprio lì.- “Bravo, – mi dice-, aspettami. Prendo lo schioppo e vengo con te, così mi fai vedere dove sta quel bastardo che è un anno che lo cerco.”

… Via partiamo. Come incomincia il bosco indico a Secondino il canalino dove vedo sempre scappare il camoscio quando con Kira batto un costone in cerca di forcelli. Aspetto mezz’ora per dargli tempo di appostarsi e comincio a scarpinare dietro alla pointer. Nel posto giusto sotto un salto di roccia Kira mi va presto in ferma e come mi avvicino parte il camoscio a grandi falcate e mi alza anche il gallo che butto giù di traversone. Vorrei gridare a Secondino, ma so che il mio colpo l’ha di sicuro messo in allarme. Infatti, poco dopo sento il rimbombo del suo moschettone e quando mi dirigo dove sta Secondino lo trovo intento a sventrare il becco. Una stretta di mano. Una foto ricordo. Sono due grandi vecchi, signori della montagna.

Le corna e la coda sono belle lunghe e nere.

Mentre io continuo la caccia, Secondino si carica il becco sulle spalle e scende in baita. —”Passa a trovarmi stasera, che ti do un pezzo di camoscio”.

…Da quella volta Secondino, mi accompagnava sempre nel mio vagabondare tra le sue montagne. M’indicava posti nuovi. Le rimesse. I sentieri nascosti. Le tracce degli animali. Il mutare del tempo. Silenzioso com’era non violentava la mia natura di cacciatore solitario. Insomma avevo trovato un maestro per la montagna e poi un amico.

La primavera seguente salgo come al solito al primo sciogliersi della neve per tener allenata Kira e per il mio naturale piacere di andar per monti. Scendo alla baita e sulla porta vedo le due donne sedute con l’immancabile tazza di latte. Secondino non c’è. — E’ malato a letto-, mi dice la moglie, – vai a trovarlo che gli darà gioia-. Secondino è sdraiato sul letto, magro come uno spettro. Mi guarda con il suo sguardo triste, ma duro, e mi dice impietoso: – Ho il “canchero”, per me è finita. Vai, vai, tu sei giovane, ti lascio le mie montagne”-.

Cammino senza meta, senza gioia. Mi sembra che tutto sia finito. Via, passo dopo passo, con lo sguardo a terra me ne scendo a valle.

L’autunno successivo torno sui monti. Ho telefonato all’amico medico del paesino in fondovalle che purtroppo non mi dà buone notizie. Secondino ha ormai pochi giorni di vita. Salgo la mulattiera con la mia fida cinquecento e come arrivo in quota, scendo alla baita. Secondino è steso sul letto. Magro come la morte. Il suo petto si solleva a stento sulle povere costole. Credo nemmeno mi riconosca.

Esco e mi avvio per le mie “crode” (per le sue “crode”). Non riesco a cacciare; la testa è via, quasi che anche per me sia finita. Kira mi guarda perplessa quando la richiamo e decido di prendere il sentiero del ritorno. Lei però continua a cacciare imperterrita sopra il sentiero. A poche centinaia di metri dalla baita mi va in ferma. Parte un cotorno che mi punta diritto; per istinto imbraccio e lo prendo di punta, tanto che mi cade quasi ai piedi e arrivo a raccoglierlo prima di Kira.

Scendo alla baita. Entro e sul letto mi appare il profilo drammatico di Secondino. Sono così sconvolto che non riesco a capire se è gia andato o se respira ancora. Gli metto nella mano il cotorno ancora caldo. Credo, o spero? che abbia un fremito.
Ciao amico.

Giorgio Bracciani – Racconto premiato al 34° Giugno del cacciatore, Castion Veronese, 2007