Appena cala la notte – ma a volte anche prima – al tramonto il riccio comincia la sua passeggiata dimenando il culetto spinoso come una serva a ore, frugando dappertutto con gli occhi di diamante e infilando in ogni possibile buco il naso porcino.

Stermina intanto insetti nocivi, rettili di ogni specie (ma le vipere sono il suo cibo preferito) e anche uova di uccelli, se ci si imbatte. Ma al confronto del bene che fa, è piccolo danno il suo; un ovetto ogni tanto, per stuzzicare l’appetito.

Infatti se i ricci diminuiscono, aumentano in proporzione gli insetti, le lumache e le vipere.

Con tutta la sua apparenza impacciata e goffa, il riccio è un vero alpinista: scala in pochi secondi, senza chiodi e corde, muri con pendenze da capogiro, pareti al cui confronto quelle del Monte Bianco o del Cervino non sono che dolci declivi.

Al mattino, nel fango o nella polvere, si trovano le sue minuscole tracce da topo, una accanto all’altra con nel mezzo il segno della coda piccolissima.

Purtroppo in tutto questo suo girovagare notturno, a volte gli capitano brutti incidenti: sulle strade di campagna o dei piccoli paesi, all’alba si vedono talvolta decine di piccoli corpi maciullati dalle auto. Sono ricci caduti sul campo del dovere.

Dai cani invece il riccio si difendeva bene: se qualcuno sulle tracce della lepre, o del fagiano, gli si avvicinava, si appallottolava, mostrava gli aculei, e il cane malcapitato, divenuto troppo audace, se ne andava guaendo con il naso ridotto a portaspilli. Ma a volte nei pressi c’era l’uomo che accorreva, buttava il riccio in un sacco, lo portava a casa e lo bolliva vivo: per togliergli gli aculei e mangiarselo arrosto.

Per tacitarsi la coscienza, ricorreva alla vecchia storia delle uova di fagiano.

Durante l’epoca degli amori, molti sulle strade ci lasciano la pelle, travolti dalle automobili.

Qualche notte fa uno mi ha attraversato la strada, a pochi passi da casa. L’ho raccolto fasciandolo con un fazzoletto e l’ho portato con me. Quando l’ho deposto sul pavimento, nel chiarore della lampadina, è rimasto a lungo immobile mentre lo guardavo. Non appena ho voltato gli occhi, è scomparso.

..Cercandolo, l’ho ritrovato finalmente in un mucchio di vecchie cassette, sotto un cumulo di bottiglie vuote. Là è rimasto per un giorno e una notte. Poi ha ceduto alla fame e timorosamente si è spinto fino ad un pezzetto di formaggio, ad una buccia di mela, al tuorlo di un uovo.

Così abbiamo fatto amicizia.

Roberto Lemmi, Piero Pieroni  –  i selvatici da vicino – Editoriale Olimpia, 1978