11054444_10204189687605897_4232421247763585289_nStiamo parlando degli anni che vanno dal cinquanta al sessanta del secolo appena concluso, e quello che ripercorre la mia memoria, è un fatto della mia gioventù beccaccinista. Figlio di agricoltore risicolo della bassa padana milanese, la caccia di quel tempo e in quei luoghi era soprattutto rivolta a poche specie di selvaggina ed assolutamente migratoria: beccaccini e pavoncelle nelle marcite, gallinelle nei risi e palmipedi nelle “tese” autunnali dopo il raccolto. Ovviamente quaglie, pure loro di passo nelle stoppie agostane. I fagiani lì non erano ancora arrivati; solo qualche lepre nei granturcheti. Allora, giovane studente alle mie prime armi di sedicenne cinofilo cacciatore, il beccaccino – complici cacciatori amici di mio padre e miei maestri di caccia che di frequente calpestavano le nostre risaie – era diventato per me una vera passione ed ossessione, sia per la difficoltà dell’intrigante tiro, sia per la bravura nel fermarli di un bracco pointer: il Dick, regalatomi dal Bossi “pelatè”, cacciatore e commerciante di pelli bovine. La cascina paterna era circondata da parecchi ettari di marcite e da altrettante risaie, ed era gioco facile l’incontro in quel paradiso sgneppante. (1) Le giornate preferite per la caccia al re dell’acquitrino erano il martedì e il venerdì. Non perché in quei giorni il beccaccino fosse più confidente od accostabile, ma perché il mio severo padre non consentiva assolutamente di cacciare in marcita e in quei due giorni era, grazie al Cielo, assente. Guai a calpestargliele! Diventava furibondo, senza guardare in faccia a nessuno, chiunque fosse ad entrare in quei preziosi (per le mucche) appezzamenti. Erano urla, bestemmie condite da varie e indicibili minacce ed io, che ero figlio del padrone, diceva che dovevo assolutamente dare il buon esempio, anche se l’esperienza e la mia conoscenza del luogo avrebbero potuto fargli chiudere un occhio. “Papà – mi giustificavo – basta seguire i fossetti “menavia” (2), che raccolgono l’acqua che scorre dall’ “innacquatore” verso il basso dell’ala della marcita; così cacciando non si fa danno, né all’erba, né al fondo del prato marcitoio…” “Ma il cane non sa leggere – replicava lui duro – e se calpesta il “filo” di fango battuto del fossetto innacquatore … la marcita va a puttane.” Non c’era verso e non esistevano eccezioni: in marcita non si doveva cacciare!. Cacce e burle d’altri tempi, quando le marcite erano il paradiso delle sgneppe. (1) N.d.r. Le marcite erano preferibilmente vicino alla cascina così da ridurre la distanza da percorrere per portare l’erba in stalla; e dalla stalla spesso scolava in marcita il liquame bovino che produceva vermetti di cui i beccaccini erano particolarmente ghiotti. Ma ciò rendeva anche facile il controllo dell’agricoltore su chi inopinatamente entrava nel campo. (2) N.d.r. La marcita era percorsa da canali paralleli; il canale “innacquatore” era collocato più in alto dal quale l’acqua tracimava verso i due canali raccoglitori che correvano ai suoi lati. Il canale raccoglitore o “colatore” era detto in dialetto il “menavia” (cioé il “porta via”). Questo delicato e sapiente circolo d’acqua veniva facilmente scombussolato se uno stivale inavvertitamente danneggiava l’argine del canale “innacquatore” da cui l’acqua debordava con magistrale precisione. Ma il martedì e il venerdì nel vicino paese erano giorni di “mercato” e gli agricoltori, a quel richiamo di chiacchiere e di lavoro, non potevano mancare. Fors’anche lui supponeva le mie infrazioni al suo divieto perentorio, ma …occhio non vede, cuore non duole e il principio era fatto salvo. Verso le dieci di mattino, appena l’Appia usciva dalla cascina, inforcando bicicletta e con doppietta del sedici a tracolla, col Dick a ruota, mi dirigevo veloce nelle marcite migliori. Di solito il “campè”, cioè l’uomo addetto all’acqua, ben foraggiato dal bottiglione di Barbacarlo d’Oltrepò che ogni tanto di sera gli allungavo, mi era alleato e di pomeriggio era solito ripassare in quelle segnalate, riassettando a colpi di badile i “fili” calpestati dal cane nell’attraversamento delle ali del campo. Ma che carnieri a quei tempi! Non bisognava certo fare tanta strada e spesso, con cane esperto e fermatore, erano sufficienti un paio d’ore per fare ottimi bottini. Un mazzetto di sgneppe delle marcite, arricchito da quelle stazionanti lungo gli argini dei risi e uccise al salto nei ristagni delle bocchette di irrigazione, faceva sempre bella figura di sé, appeso in cantina al fresco. L’orario migliore per i risi in piedi era quello del mezzogiorno: mio padre non era in cascina… e le sgneppe ben pasciute, si appisolavano al tepore del sole, gneccando vicine al mio passaggio. Le fucilavo come quaglie: al riporto ci pensava il Fufi, uno smilzo fox terrier addestrato alle bisogna per becchilunghi e gallinelle e che nei risi si addentrava senza muovere le spighe. ❁ Avevo a Milano un amico più anziano di me, già laureato e ricercatore in una grande azienda farmaceutica milanese, che al sabato mattina si accompagnava a me nella caccia dei beccaccini. Grande appassionato di becchi lunghi e valente cinofilo, cacciatore alpino di galli e cotorne, coi beccaccini purtroppo non aveva grande dimestichezza. Infilava padelle su padelle: una vergogna! Il sole in faccia, la nebbia, il fango, il piede messo male, il mio cane che li fermava troppo lunghi, era fuori tiro…insomma, una lunga sequela di inutili scusanti… ma di beccaccini pochi, malgrado i numerosi incontri. Quando per caso ne colpiva uno o era per uno sparo in contemporanea al mio o…un vero miracolo. Ne portava però a casa sempre tanti. Quei beccaccini appesi lassù al fresco in cantina…di sabato andavano sempre a Milano. E la sua gloria – passando dall’armiere di fiducia in Corso XXII Marzo – aumentava a dismisura fra i suoi amici milanesi e montanari. La qual cosa (al di là di qualche scatola di cartucce Walsrode in omaggio e della sua familiare amicizia) non mi andava molto a genio. Non che m’importasse molto del carniere o dei numeri del mio cane, ma sulla fama immeritatamente guadagnata, sì … e molto!. Una sera di novembre, dopo una fruttuosa cacciata in risaia, gli telefonai. “Angelo, oggi otto beccaccini, tra i quali ce n’è uno “canarino” – gli annunciai. “Canarino? Cosa vuol dire?” “Vuol dire che ne ho preso uno completamente giallo. Beccaccino in tutto, per volo, dimensioni e fattezze, ma di uno strano color canarino. Sabato lo vedrai”. Ed appesi il telefono. L’amico, laureato in veterinaria e buon ornitologo per passione e studi, assolutamente non voleva dar credito alle mie parole. Sapeva di albinismi e melanismi, ma una sgneppa di tal colore non l’aveva mai studiata né sentita: “Ma non sarà un croccolone o uno strano sgambettone nordico?” suggerì. Durante la settimana arricchii di molto il bottino e il mazzo in cantina era là ad aspettarlo, appeso ad un gancio della trave, comprendendo il bel beccaccino giallo, che di sé faceva bella mostra . E venne il sabato, la sua smaniosa curiosità e la veloce visita in cantina. Alla vista, rimase allibito e quasi svenne per la sorpresa: là tra il mazzo appeso, nel semibuio del luogo, il beccaccino canarino spiccava per il colore dorato; sembrava persin fosforescente… “La tua fama d’ora in poi sarà ancor più grande – lo stuzzicai – Sarai l’unico a Milano ad aver colpito un beccaccino canarino…” P.S. Nel corso di quella settimana, durante i lavori di ristrutturazione in cascina – cela va sans dire – le pareti interne del granaio erano state dipinte di un bel giallo brillante…