Avevo compiuto quindici anni da una settimana, era Dicembre del 1996, quando ero entrato come apprendista nella fabbrica dove lavorava mia madre. Era stato uno scambio, entravo io e restava a casa lei. Con i sacrifici fatti come operaia la casa era finita e avendo una sorella più giovane la mamma aveva più tempo da dedicarle e crescerla. Il tempo, inesorabile, passava: da grigi a bianchi erano diventati i capelli dei miei nonni che, fortunatamente si erano trasferiti in una casa non lontana dalla nostra e così, anche loro beneficiavano delle gentilezze di mia madre, sempre presente, a volte in anticipo sulle loro necessità di “ anziani”. 

Dunque lavoravo perché non mi piaceva studiare, le raccomandazioni della mamma di impegnarmi sui libri erano vane, appena lei usciva per il lavoro io chiudevo libri. Stanchi di vedermi in terza media “e grazie anche ad una ragazza che agli esami di settembre mi aveva passato il compito di matematica “, ne ero uscito. La fabbrica era tessile, con una notevole presenza femminile, gli uomini pochi che vedevo erano per lo più impegnati a fare i turni di notte, io ero ancora troppo giovane per quelli.

In paio di anni avevo ingranato: ancora mi era escluso il turno notturno ma restava il giorno, il che non andava male perché nel frattempo mi ero fatto diverse amicizie soprattutto fra le tante donne che trascorrevano più ore con me che con il marito. Inevitabile sia nata qualche simpatia. Una, in particolare, che però si era conclusa con il mio trasferimento nel peggiore dei reparti, quello della tintoria, lei invece aveva preferito licenziarsi, non sopportando lo scandalo in cui eravamo incappati. Nel nuovo reparto, malsano e pesante c’era prevalenza di uomini fra questi diversi cacciatori, così, quando si poteva, si parlava di caccia al punto che, durante la pausa per il pasto l’ambiente si faceva decisamente allegro e scherzoso. Bisognava però comportarsi nel dovuto modo: le regole, non scritte, erano tassative. Quindi se eri troppo silenzioso potevi essere giudicato come un tipo presuntuoso ma, regola aurea, non bisognava dare modo di prenderti di mira, altrimenti i colleghi si coalizzavano con il più forte e non mancavano di farti fare la figura dello zimbello, e peggio. Un giorno agli inizi di Marzo, Luigi aveva proposto di andare a sparare alle marzaiole che, secondo lui, di notte dormivano in palude presso il lago Lucone e, di giorno, pasturavano nei pressi dei laghetti di Puegnago. Sembrava essere garantita la certezza di fare qualche buon colpo all’alba quando questi uccelli, molto simili, ma più piccoli dei germani, entravano nei laghetti.

La mia passione era la montagna

Non era la mia passione ne’ m’interessava molto ma, a quell’età, l’idea di sparare, mi aveva portato ad accettare.

Ci eravamo organizzati in tre Luigi, Fabio ed io. Eravamo già appostati quando era ancora notte: Luigi l’esperto ci aveva assegnato i posti, si era portato il suo grifone korthals, che diceva fosse un ottimo nuotatore per eventuali recuperi in acqua. Pur essendo Marzo faceva un freddo terribile, il cielo terso e sereno e una brezza da est che congelava i piedi. Sì, per una volta mi ero messo gli stivali e mi maledivo per averlo fatto: si udiva lo scricchiolio del ghiaccio che si muoveva sull’acqua dei laghi, solo uno non era completamente gelato ed era lì che aspettavamo l’arrivo delle anatre. Un freddo che ancora mi ricordo, ma piano, piano stava spuntando l’alba. Muovevo continuamente i piedi perché non congelassero quando, dalla posizione di Luigi si era levato un colpo: “Ha sparato. Bene qualcosa si muove”, avevo tutti i sensi in allerta. Solo più tardi avevo sentito un tuffo nell’acqua e calcolavo l’altezza in cui era la preda doveva essere stata colpita. Considerato il tempo intercorso tra lo sparo e il tonfo nel lago, doveva proprio essere altissima; dopo un attimo altro colpo e altro tonfo. Ottimo, pensavo, Luigi si era scelto proprio il posto migliore poiché non vedevo volare nemmeno una nuvola. L’attenzione era al massimo: aspettavo solo che arrivasse il mio momento, magari mentre un’anitra faceva il suo ingresso in acqua. Luigi dopo i due colpi continuava ad incitare il korthals al riporto.

Quasi albeggiava: il momento migliore per colpire. “Smettila con quel cane – gli urlo –facciamo silenzio. Le anatre le recuperiamo dopo!” Niente lui continuava ad incitare il korthals, io anatre non ne vedevo. Avevo così deciso di avvicinarmi a Luigi per capire quale problema avesse con l’asso del riporto. Arrivato nei pressi vedo il povero cane tentare di guadagnare la riva, non aveva niente in bocca. Nervoso, Luigi aveva preso il suo grifone korthals con due mani ributtandolo in acqua, porta, porta, gli ripeteva ma lui non ne voleva sapere, non sembrava proprio pensare al recupero, ma solo a risalire. Luigi, fuori di sé, continuava ad urlare, a ripetere che “…è grosso, è bianco, è la nel canneto”. Inutile cercare di calmarlo mentre ripeteva le stesse parole, aggiungendo un dettaglio: “Ho sparato ad un cigno”. Ragione di più per smetterla di fare chiasso, sibilo a quel sedicente super esperto improvvisamente involutosi in un ossesso perché il cane, un cigno, non lo recupera. Facendomi violenza interiore torno ad invitarlo alla calma, poiché il rischio di farsi sentire c’è e, se ci sentono le guardie forestali sai che verbale…

Intanto continuo a non capire, i due spari, i due tonfi, chiedo spiegazioni, ma non arrivano. Luigi ormai era fuori da ogni controllo: prima si mette alla ricerca di un barchino, poi vuole entrare lui a nuoto, insomma un caos tale da svegliare il proprietario della cascina che sorgeva lì vicino. Infatti, un uomo di ragguardevole stazza, si stava avvicinando e, buttando l’occhio sul laghetto aveva cominciato da imprecare: “La mia oca hai ucciso! Bestia che sei, era la mia oca di razza! Mi faceva un uovo al giorno. La riprendo io con il barchino”. Per un momento me l’ero vista veramente brutta ma, paradossalmente, tutto questo aveva calmato Luigi.

Alla fine era stato assicurato il risarcimento, il contadino aveva piegato la testa – il danno ormai era fatto -, e il danno sarebbe rimasto nel tempo a causa della resa quotidiana che poteva avere dalle uova della sua oca di pura razza ecc. ecc. Bene, anzi male il contadino era rientrato con il barchino, recuperato l’oca e, solo svuotando tre portafogli, riusciamo a mettere assieme diecimila lire, che non appagano del tutto il contadino, poi con mille scuse, orecchie basse, ci eravamo defilati lasciando lui e la sua povera oca.

L’avventura si era così conclusa ma ancora non sapevo spiegarmi le due fucilate e successivi tonfi. Mentre stavamo rientrando in auto, avevo chiesto a Luigi un chiarimento. Decido per la domanda diretta: “Ma quanto era alto questo Cigno/Oca per sentire il tonfo così tardi”. Ci aveva pensato qualche momento prima di rispondere: “Ho sparato all’oca mentre nuotava tra le canne”. “Ma se ho sentito in tonfo”, esclamo io. Luigi, candidamente mi aveva spiegato che il tonfo era del  korthals che lui aveva buttato in acqua per il recupero, ma considerato che l’oca si muoveva ancora ecco il secondo colpo e siccome il  korthals nel frattempo aveva toccato terra, il secondo tonfo non era altro che il secondo lancio del cane seguito dai numerosi richiami: porta, porta. Tornati al lavoro per un paio di giorni siamo riusciti a mantenere il segreto in reparto, ma ogni volta che ci incontravamo Fabio ed io, non riuscivamo a trattenere le risate, fino a quando, e ridi un giorno, e ridi due, alla fine ci siamo visti costretti a confidare l’accaduto. E, inevitabilmente, Luigi, l’esperto cacciatore, era diventato ed aveva mantenuto per anni lo status di zimbello del reparto. C’era anche stato chi gli aveva persino costruito un cigno di cartone che emergeva, di tanto in tanto, dalle vasche della tintoria, per ricordare a Luigi che, ai cigni, non si spara! Mai!!!