PREMESSONA: io odio la caccia, come credo ormai tutti sappiano. Specifico meglio: odio la caccia intesa come “divertimento”. Perché se uno va, abbatte un selvatico (UNO), lo porta a casa e se lo mangia, la cosa non mi disturba più di tanto. Cioè, un po’ sì, a dire il vero: però mi contengo. Per questo non odio, per esempio,  i cacciatori che fanno caccia di montagna, quella in cui scarpini per ore ed ore il più delle volte senza prendere un accidenti, e quelle rare volte in cui ammazzi un uccello si tratta appunto di UNO, che ti porti a casa e cucini. Questo lo posso accettare, perché è sempre meglio che mangiare un pollo del supermercato (che ha fatto sicuramente una vita molto più infame del fagiano di montagna).

Poiché non sono vegetariana, ammetto di essere anche ipocrita nel limitarmi a non voler vedere morire quello che mangio (e men che meno riuscirei ad ammazzarlo io stessa). Però non mi sento di condannare chi invece questo coraggio ce l’ha… purché si tratti, appunto, solo di ciò che serve al sostentamento. D’altronde, se tutti mangiassero il quantitativo di carne che mangio io, non ci sarebbe certo bisogno di allevamenti intensivi né di polli in batteria: basterebbero le buone, vecchie fattorie  di una volta e ci sarebbero proteine animali a sufficienza per tutti. Però gli animali vivrebbero una vita dignitosa, vivrebbero bene fino al momento in cui verrebbero uccisi nel modo più indolore possibile. Le “grandi abbuffate” di carne, causa dell’allevamento intensivo e dei maltrattamenti, le vedo invece esattamente come la caccia in riserva: uno spreco indegno e vigliacco di vite.

Detto questo: ho avuto – ahimé – un padre cacciatore. Che a caccia ci andava pochissimo, perché di tempo libero ne aveva pochissimo: ma quando andava, andava appunto in riserva. Perciò gli ruppi talmente le scatole che alla fine lo costrinsi a smettere. Nel frattempo, però, gli  rovinai due cani. Al primo, un epagneul breton di nome Whisky (che fu anche il mio primo cane in assoluto), insegnai – a puro scopo boicottatorio – il “controriporto”: ovvero, gli insegnai a scappare a zampe levate con la selvaggina in bocca e a seppellirla a chilometri di distanza (il “dresseur” a cui lo portò mio padre dopo qualche mese decretò che il cane non si comportava così spontaneamente, ma che era stato addestrato da qualcuno e che “quel qualcuno aveva fatto un dannato buon lavoro”. Avevo undici o dodici anni, ma si vede che coi cani me la cavavo già benino). Whisky, purtroppo, scomparve dopo pochi anni, probabilmente rubato. Mia madre lo portò a fare i  suoi bisogni sotto casa, come sempre: lui sparì nel nulla e i successivi mesi di ricerche disperate non diedero alcun frutto. Quando fu chiaro che non c’era più alcuna speranza di ritrovarlo arrivò un setter di nome Black (non si sa perché, visto che era bianco arancio), che però a caccia non ci andò mai perché nel frattempo io ero diventata abbastanza grande da non limitarmi più a piangere ogni volta che mio padre rientrava con  qualche cadavere, ma da mettere in atto una tale demolizione di maroni da convincerlo ad appendere il dannato fucile al chiodo. Il fucile si è poi vendicato quarant’anni dopo, ma questa è un’altra storia: il cane, invece, rimase con noi per qualche mese come cane di famiglia, dopodiché mio padre mi piantò una contrograna megagalattica dicendo che un cane così in un appartamento era sprecato, che tutta la sua genealogia era di cacciatori, che lo stavo rendendo un infelice frustrato.

Poiché temevo che non avesse tutti i torti, si arrivò al Grande Compromesso e Black venne affidato ai nonni, che vivevano in campagna: non andavano a caccia, ma almeno il cane, da loro, avrebbe avuto la possibilità di correre e di sfogarsi. E così fu (ho idea che Black abbia avuto la possibilità di “sfogarsi” anche in altri modi, non solo correndo: perché il paesino di campagna in cui abitavano i nonni si popolò rapidamente di setteroidi di vario genere. Ma quelli non eran tempi in cui si badasse troppo a controllare le nascite). Da allora non ho mai più avuto, né desiderato avere, cani da caccia: in compenso ho conosciuto molto bene il setter “di casa” di un’amica (che ha scritto anche diversi articoli per “Ti presento il cane”), la quale ha fatto il percorso inverso e, per compiacere il cane, si è avvicinata alla caccia (e quindi io mi sono allontanata un po’ da lei. Posso capire il suo punto di vista, ma non riesco a condividerlo e quindi i nostri rapporti si sono un po’ raffreddati). Tutto questo per dire che il “vero standard” che leggerete qui si riferisce al setter in quanto “cane e basta”, ma non in quanto “cane da caccia”: perché di caccia non ne capisco un tubo e neppure voglio capirne un tubo. E’ che i cani, porca miseria, mi piacciono anche quando sono stati selezionati per quello scopo lì.

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PREMESSINA: il setter inglese ha tre Standard: mica baubaumiciomicio. C’è lo Standard FCI (quello su cui dovrebbero basarsi i giudici in expo), che è una ciofeca talmente generica che potrebbe adattarsi a setter, pointer, bracchi o lapinkoira;  c’è lo Standard italiano di Caielli (che è uno Standard serio e dettagliatissimo) e c’è lo Standard di lavoro. Quest’ultimo non verrà neppure citato per i motivi esposti nella premessona. Gli Standard morfologici, poiché questo NON è un articolo serio, li citerò a casaccio, o anche per nulla. Tanto non è che in giro se li filino più di tanto (v. “aspetto generale”).

ASPETTO GENERALE: dipende; perché ci sono i setter da show, i setter da caccia e i setter “via di mezzo”, che sarebbero quelli col celeberrimo dual purpose, ovvero belli e bravi. Ovvero quelli a cui tutti dovrebbero aspirare, ma che in realtà non vuole quasi nessuno: perché la cinofilia di oggi è fatta di eccessi: per vincere in expo devi essere talmente bello (e nel caso del setter, talmente peloso) che se andassi a caccia vestito così inciamperesti nelle tue frange. Per essere bravo a caccia, invece, devi essere figlio nipote pronipote eccetera di leggendari cacciatori. Sfiga vuole che i leggendari cacciatori siano quasi sempre brutti come la notte.

Negli USA, dove gli eccessi della cinofilia italiana sono moltiplicati almeno per sei, hanno raggiunto il seguente compromesso: i cani da show fanno expo soltanto a caccia chiusa, dopodiché vengono tosati (non scherzo) e vanno a lavura’.

Però gli americani hanno anche  i setter propriamente “da lavoro”, detti anche “Llewellin setter” (e Llewellin, quello vero, si rivolterà sicuramente nella tomba) che sono una roba indefinita, vagamente somigliante a un setter (ma anche un po’ a un segugio, eh), che fermano stando dritti in piedi (quindi potevano anche chiamarli “stander”, visto che “setter” deriva da “to sit”, perché fermano quasi da seduti). Dulcis in fundo, questi cani fermano tenendo con la coda “a ore 12”, ovvero dritta a bandiera. Sinceramente, nun se possono guarda’. Comunque: l’aspetto generale raccomanda di “scartare quei setters inglesi mastodontici, con pelle abbondante, linfatici, con testa grande che oltre a non essere nel tipo, saranno lenti e poco resistenti“. E ovviamente, anche se non siamo ancora arrivati alle teste quasi molossoidi che si vedono in USA, con quei bei labbroni cascanti e l’occhio pendulo e tanta bella pelle che ricasca mollemente, i setter da sow nostrani ci stanno picchiando vicino. Disquisizioni (e interpretazioni) morfologiche a parte, il setter inglese, quando è bello, è bello. In più è dolcissimo, amichevole con tutti: gioca con qualsiasi cane, ama (o sopporta, a scelta) i bambini, in casa è tranquillo come una Pasqua.

Non è un cane che normalmente si sceglie in base a un impulso momentaneo: primo, perché dificilmente lo si trova in negozi, fiere del cucciolo e affini. Secondo, perché i cuccioli non hanno neppure l’aria particolarmente “cucciolosa”. O meglio, ce l’hanno fino a 35-40 giorni (quando li vede solo l’allevatore): ma a due mesi, età in cui possono essere messi in vendita, di solito sembrano già degli adulti in miniatura. E in più ti guardano con quella faccina da “Be’? Che cavolo vuoi?” Dunque: bello, dolce, amichevole, non “di moda”, non “comprabile per impulso passeggero”… verrebbe da pensare che sia il classico “cane per sempre”, a cui, una volta che te lo sei preso, non riuscirai a rinunciare mai più. E invece è il cane più abbandonato del West.

I canili ne sono pieni: entra in un rifugio qualsiasi, in qualsiasi parte d’Italia, e troverai più setter che in un allevamento.

Magari non bellissimi, per carità. Magari non proprio soggetti da esposizione. Ma setter, senza ombra di dubbio.

E se è vero che i cani più diffusi, per pura statistica, sono anche i più abbandonati, il numero dei setter inglesi in canile è troppo alto per rientrare semplicemente in questa logica. Quindi il problema sta, probabilmente, nel…

CARATTERE – qui vado a pescare l’unica cosa interessante che si può trovare nello Standard FCI, ovvero la descrizione del comportamento/temperamento, che recita così: “Molto attivo, con acuto senso della caccia. Molto amichevole e di buon temperamento“. Avete notato le priorità?

PRIMA parla di un cane attivo e cacciatore, POI del fatto che sia un simpatico patatone. E infatti, se tu prendi il simpatico patatone e lo liberi in un campo/bosco/prato/spazio-libero-a-caso, quello parte a trecento all’ora, pancia a terra, facendoti capire chiarissimamente cosa si intende per “galoppo veloce”. Parte e va a caccia: non importa di cosa, non importa come e perché. Non gliene può frega’ de meno se tu non sei uscito di casa con un fucile in spalla, ma con una pallina in tasca. Non gliene può frega’ de meno neppure se lo chiami urlando a squarciagola : neppure se l’hai portato per sei mesi al campo a fare il corso di obbedienza nel quale era il primo della classe, perché obbediva meglio dei border collie (specialmente al richiamo).

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Lui va a caccia, punto.

Per luuuuuuuuuungo tempo e per aaaaaaaaaaaampi spazi: tanto che, probabilmente, una buona percentuale dei millemila setter che si trovano in canile non è stata affatto abbandonata, ma persa. Se guardate gli annunci di cani persi/ritrovati, infatti, troverete ancora una volta un’overdose di setter inglesi.

Un cane da divano fatto e finito. Un mortodesonno. Uno da cui MAI ti aspetteresti fughe da una provincia all’altra.

Certo, quella faccia lì, unita ad altre migliaia di faccebuffe che il setter sa inventarsi per fare il pagliaccio giocherellone, è anche alla base del fatto che molta gente continui a scegliere questa razza, pur non amando la caccia. Perché il setter, in casa, è dannatamente simpatico. Non disturba quasi mai (tranne quando mangi, perché è un pozzo senza fondo e anche se ha appena svuotato la ciotola verrà sempre a pietire bocconcini), ma quando ha voglia di giocare o di scherzare (e ce l’ha spesso, perché ha un notevole senso dell’umorismo) dimostra un’inventiva veramente geniale.

D’altronde lui è un genio: e forse è una fortuna per l’umanità che moltissimi setter stiano in mano a cacciatori che li tengono sempre in un box, ogni tanto li caricano in macchina e li spediscono per prati a cacciare e basta. Sì, lo so che è brutto dirlo: ma è una fortuna. Perché se i setter vivessero tutti in casa, a stretto contatto con l’uomo, forse a quest’ora la specie dominante su questo pianeta avrebbe quattro zampe e non due.

Sia chiaro: non è l’unico cane intelligente. Ma è l’unico che non se ne fa accorgere. Se tu guardi in faccia un siberian husky, altro genietto canino (posso ben dirlo, avendoli allevati, perché quando provavano a fregarmi ci riuscivano due volte su tre), ti accorgi subito che sta studiandosi qualcosa. Ha la faccetta furba, l’occhio da “o te l’ho combinata, o sto per combinartela”. Il setter NO.

Lui ha la faccia da sonno, l’occhio languido, l’aria apatica. Se lo porti in un prato e prima di liberarlo lo minacci, tipo: “Se provi di nuovo a scappare è la volta che NON ti cerco più!”, lui  ti guarda con la testina storta e lo sguardo di chi si sforza disperatamente di capirti, ma proprio non ce la fa. Nel fumetto sulla testa potrebbe esserci scritto: “Eh? Che stai dicendo? Non riesco a capire l’umanese, scusami tanto, ma è troppo difficile per me”. In realtà ha capito perfettamente non solo le parole, ma anche tutto quello che stava tra le righe: compreso il fatto che senza di lui non puoi vivere e che quindi lo cercherai sempre e comunque, dovunque vada e qualsiasi cosa faccia. Dopodiché lo liberi dal guinzaglio, lui parte a trecento all’ora pancia a terra, non ti caga minimamente se lo chiami e, se davvero non lo cercassi, tornerebbe dopo una settimana (sempre che prima qualcuno non lo raccolga e se lo tenga – non sapendo quel che lo aspetta – o non lo porti in canile).

TESTA – stupenda, davvero affascinante quando “se la tira da bel cane”; tenerissima e irresistibile quando invece sceglie di fare le facce da canescemo. In pratica riesce a fregare tutti: sia gli esteti che gli amanti del cane patatoso che vuole tante coccole e ti dà tanti bacini. In più, ovviamente, ha uno stuolo di estimatori del suo lavoro: e devo confessare che perfino io, che ho della caccia l’opinione espressa sopra, quando vedo lavorare questi cani mi incanto a guardarli. Poi a me piacerebbe che la cosa finisse lì: la cerca, la ferma, il consenso,  bravi, bene, che cani stupendi. Ora magari al fagiano gli facciamo una bella foto, dopodiché torniamo tutti a casa felici. Il fatto è che il cane, se fai davvero così, si incazza. Anche sul setter, come su millemila altre razze, ho girato un documentario, ponendo però come condizione al produttore che non si dovesse sparare a nessuno durante le riprese. Presi i debiti accordi con gli allevatori, girammo le scene di caccia senza effettivamente cacciare…e dovevate vedere le facce dei cani. Cercavano, fermavano, tutti entusiasti di lavorare…ma quando, invece del cacciatore, gli arrivava vicino un tizio con la telecamera in spalla, lo guardavano con musi veramente PARLANTI. E  dicevano cose tipo: “Be’?” “Allora?”  “Cos’è che hai lì? Il fucile dove l’hai messo? Insomma, son due ore che lavoriamo e non sparate mai! Pensate che stiamo qui a smacchiare i giaguari?”.

Morale: siamo tornati alla base con me  tecnicamente soddisfatta, ma anche preda di vaghi sensi di colpa. Perché i cani, che erano partiti tutti gioiosi e scondinzolanti e con le facce felicissime, tornavano a casa con i musi lunghi e l’aria schifata. E’ per questo che capisco perfettamente la mia amica Rossella che dopo essersi presa il setter rescue, e averlo tenuto come cane di casa per un paio d’anni, si è messa ad andare a caccia. La detesto per averlo fatto, ma la capisco anche. Per questo non me la sento di dire a nessuno “prendetevi un setter da compagnia, è un cane fantastico e – sempre che non ve lo perdiate – può vivere felice anche senza andare a caccia”. Perché in fondo è anche vero, eh. Può vivere felice. Però, se ha modo di fare il suo lavoro, è felice al quadrato. Al cubo. All’ennesima potenza. E non è cosa che si possa negare, che ci piaccia o meno. Un conto sono gli ideali, l’etica, le ideologie, e un conto è la cinofilia. Se sei cinofilo nel senso letterale del termine, se davvero vuoi fare tutto ciò che è in tuo potere per dare il meglio al tuo cane… allora, se hai un setter, devi portarlo a caccia. Lo dico con la morte nel cuore, ma purtroppo non posso negare l’evidenza.

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La cosa, ovviamente, NON vale per i millemila setter che languono nei canili. Quelli sono cani talmente infelici e frustrati che anche la vita da cane da divano, per loro, sarà sempre immensamente migliore di quella che stanno facendo adesso. Purtroppo gli animalisti, che spesso gestiscono i rifugi, hanno l’abitudine di negare questi cani ai cacciatori. E anche loro posso capirli, ma anche a loro devo dire che così NON fanno il bene del setter. Ovviamente non mi sognerei mai di consigliare ai volontari di affidare un cane al cacciatore-buzzurro che lo considera solo uno strumento e che lo rispetta meno del suo fucile: ma i cacciatori non sono tutti così. Fossi nei panni di un volontario, io guarderei più alla qualità della persona che al suo hobby: e a un cacciatore che ama davvero i suoi cani (ce ne sono tanti, anche se riesce difficile capire come si possa amare un animale ed ammazzarne allegramente altri), credo che un setter lo darei.

OCCHI – sull’infinita gamma di espressioni che riesce a sciorinare questo  ruffianone DOC abbiamo già detto tutto. Quindi aggiungiamo solo che gli occhi devono essere di colore nocciola, più scuro possibile (così gli riescono meglio gli sguardi languidi da mortodefame).

ORECCHIE – bellissime, setose, tutte da pacioccare, a funzionalità variabile. Riescono a sentire lo “scrush” di un sacchetto di patatine a due chilometri di distanza, ma l’urlaccio “TORNASUBITOQUIIIIIIIIIIIIIII!” lanciato da tre metri si scontra inesorabilmente contro un’invalicabile barriera di pelo e frange.

BOCCA – fosse per lui, sarebbe costantemente piantata in una ciotola (o al massimo sbavante ai bordi di un tavolo apparecchiato). Sarebbe carino NON accondiscendere, perché altrimenti ci si ritroverà con un botolo a forma di tavolino anziché con un setter. Battutona scema: si rischia di ritrovarsi un otter. AVVERTENZA: se qualcuno sperasse in un minore velocità e resistenza del cane grasso, e fosse quindi tentato di permettergli di mangiare tutto quello che vuole, se ne scordi proprio. Un setter grasso è sicuramente meno veloce e meno resistente di un altro setter, ma un umano lo semina come e quando vuole. L’unica cosa che si ottiene lasciandolo ingrassare è un fegato spappolato alla Vasco Rossi (no, non il suo: ha scritto proprio una canzone che si chiama così), ma  non certo un cane più obbediente o più facile da gestire.

ARTI: gli arti del setter inglese sono più corti di quelli degli altri setter: in particolare l’avambraccio, che è proprio quello che gli permette di “gattonare” durante il lavoro. Corti o non corti, gli arti del setter – come abbiamo visto – lo proiettano in giro per campi, boschi e prati alla velocità della luce.

MANTELLO: pelo raso sulla testa, orecchie escluse: frange non folte (ditelo agli americani) al margine inferiore del collo, sullo sterno, sul margine posteriore degli arti, sulle natiche e sulla coda. Sottopelo abbondante solo nella stagione invernale (d’estate, infatti, ve lo semina tutto per casa).

COLORI: quelli da preferire sono: bianco e nero tendente al blu (blu-belton); bianco e arancio (lemon belton); bianco e marrone (liver-belton); tricolore (bianco a macchie nere e focature), con moschettature più o meno numerose e macchie più o meno grandi.

I mantelli interamente bianchi, fegato, arancio, neri e neri focati non sono ricercati. Curiosamente, anzi, quasi incredibilmente, anche i setter con colori un po’ diversi dai classici vengono riconosciuti come tali. Il setter è un cane famoso: quindi, per questa razza, non posso fare l’elenco dei nomi alternativi, perché lo riconoscono tutti, anche i cinofili stradali e le sciuremarie.

Nella mia breve carriera di umana di Black, però, una nota rilevante c’è stata: quella di una sciuramaria che mi ha chiesto: “Che bello!  E’ un cane da acchiappo?”. IN CHE SENSO, SCUSI? Per quanto sia abbastanza difficile che io resti senza parole, a quella domanda non seppi proprio rispondere. A dire il vero, non ho ancora capito adesso cosa intendesse dire.

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