CACCIATORI DI MONTAGNA, DI BECCACCE E BECCACCINI

Il più felice non è assolutamente chi ammazza di più ne tantomeno chi trova di più e neanche chi ha i cani migliori, il più felice è semplicemente colui che trae il maggior godimento e divertimento nel trascorrere il tempo nel bosco o in montagna dietro la coda del proprio cane inseguendo le prede desiderate…….."magari in solitaria nel più alto rispetto di chi e di cosa lo circonda"

In un mare fermo coperto da boschi. Intervista a Mario Rigoni Stern

Custode della memoria delle Alpi e delle sue genti, il “sergente della neve” Mario Rigoni Stern è stato uno dei più grandi narratori dell’epopea tragica dell’armata italiana in Russia e di un mondo contadino sconfitto ma non cancellato dalla storia del Novecento. Vi riproponiamo questa intervista realizzata, appena un anno prima della sua morte, per la rivista dei soci di Slow Food. Buona lettura!

È strano incontrare Mario Rigoni Stern al mare. Lui che ha raccontato i boschi dell’Altipiano. E la steppa della Russia, attraversata per la ritirata del 1943.

È strano incontrare Mario Rigoni Stern a Genova. Dove la regione Liguria gli ha consegnato il premio ‘Provincia senza confini’ e dove l’Università di Scienze Politiche gli ha conferito la Laurea honoris causa.

È strano, ma molto piacevole.

Quali sono i primi ricordi della sua infanzia sull’Altipiano di Asiago?

Ho aperto gli occhi sull’Altipiano alle soglie dell’inverno e ho ricordi che vanno molto indietro nel tempo. Avrò avuto un anno e ricordo la galaverna che illuminava le pareti della mia stanza, perché non c’era riscaldamento, i vetri coperti di ghiaccio e il baluginare delle fiamme nel forno di cotto che tenevamo in camera. E poi ricordo il lumino a olio che avevo sul comodino.

Ottantacinque anni tutti passati sull’Altipiano. Perché non l’ha mai lasciato?

Perché è il luogo dove sto bene. Amo i luoghi senza confusione. Ci sono dei posti nel mondo che mi lusingano, che mi piacciono: il Portogallo per esempio verso l’Atlantico, quei villaggi poco popolati, silenziosi, dove si sente solo il rumore dell’oceano. Oppure la steppa della Russia.

Quindi il bosco. Nel bel Ritratto che Carlo Mazzacurati le ha dedicato lei confessava a Marco Paolini il suo sogno anarchico: passare tutta l’eternità a sciare nei boschi.

Certo, sarebbe bellissimo. Andare senza pericoli, con i propri pensieri, senza fatica, tranquillo. Il bosco come un paradiso terrestre dove l’uomo può vivere seguendo l’andamento della natura.

Lei che di montagna ne conosce tanta, cosa rende l’Altipiano così peculiare?

Io conosco le montagne dalle Alpi Marittime a quelle Iulie e ne ho camminate molte. L’Altipiano si distingue perché sono montagne alte senza avere cime eccelse. Fino ad una certa altezza sono tutte coperte di boschi e questo le distingue da quelle valdostane, piemontesi o lombarde, strette e molto nude in alto. O quelle dolomitiche che hanno la pala, il prato e la roccia. L’Altipiano è come un mare fermo, tutto coperto da boschi.

E la gente, i montanari? Sono diversi quelli delle sue parti dagli altri che ha conosciuto?

Erano diversi. Perché la tradizione, la storia li aveva resi diversi. Fino alla prima guerra mondiale i nostri vecchi parlavano un linguaggio piuttosto strano che chiamavano cimbro, era un tedesco medievale che aveva molto a che fare con la mitologia nordica.

La prima guerra mondiale, la seconda, la televisione, il turismo, i fuoristrada, gli aeroplani hanno cambiato questo sistema e modo di vivere antico. Il nostro Altipiano non ha castelli di principi, non ha ville di signori, non ha cattedrali di canonici perché eravamo noi i proprietari di tutto. Il terreno era della comunità e la comunità amministrava tutti i beni di boschi, di montagne e di pascoli. Era una confederazione di comuni, come in Svizzera, creata nel 1300 e durata per più di cinquecento anni.

Oggi non è più così?

Gli interessi economici hanno fatto perdere questa tradizione. Non c’è più rispetto per questo antico modo di vivere, si crede di risolvere tutto avendo due o tre macchine, e magari due case, una in montagna e una al mare. Tutto questo non fa che distrarre l’uomo dalla sua essenza. Non si deve crescere solo economicamente. Abbiamo una velocità alta per quello che riguarda le scoperte, la scienza, il progresso mentre la crescita morale ha rallentato il passo.

È vero che la sua casa se l’è costruita da solo?

È una casa molto semplice nella quale vivo da più di quarant’anni. Ho comperato questo piccolo pezzo di terra, era tutto sterpi, sassi e spine, ci facevano il nido gli uccelli, era riparato ed esposto al sole per cui andava bene. Ho comprato un badile, un picco e una corda metrica e ho cominciato a segnare per terra. Dietro ci sono trenta chilometri di bosco. È della comunità per cui è anche mio.

Vicino alla casa c’è l’orto a cui lei è molto legato

L’orto l’ho avuto fin da quando ero bambino, come racconto nel mio ultimo libretto, ‘Stagioni’. Un orto non tanto grande che continuo a curare. Ora sto per mettere giù il letame, stallatico maturo, che mi ha portato un amico contadino. Dopo comincerò a piantare gli ortaggi seguendo l’ordine che vuole la natura: inizierò con le cipolle che non soffrono molto il freddo e l’aglio e poi proseguo, gli ultimi saranno i fagioli perché sono delicati.

Poi tutto finisce nella padella della signora Anna, sua moglie, che ci dicono ottima cuoca?

Certo i prodotti dell’orto li mangiamo noi, i famigliari, qualcuno che passa. Non c’è paragone con quelli acquistati, non c’è confronto. Fino a poco tempo fa coltivavo anche le patate, ho smesso quando ho compiuto ottant’anni perché sono faticose da curare. Però ho degli amici che le coltivano come si deve e me le regalano.

E gli alveari li ha ancora? Produce ancora miele e propoli?

Purtroppo no, perché diventando vecchio non avevo più la sicurezza del manovrare le api e così ho regalato tutto ad un apicoltore più giovane, ma il miele, la cera e il propoli li uso sempre.

Come medicina alternativa?

No, come medicina effettiva, mica alternativa. Non c’è miglior disinfettante del propoli per ferite e scottature.

Lei ha dedicato un libro, ‘Arboreto salvatico’, alla capacità del bosco di guarire

Il bosco guarisce la nevrosi, l’insonnia e l’inappetenza… non è certo poca cosa.

E poi il bosco è ricchissimo di riserve: bacche, germogli, funghi. Basta non accanirsi alla ricerca dei porcini, ce ne sono tanti ancor più buoni. Solo i fanatici si fissano, e calcolano la qualità della vita con la quantità. Non bisogna essere ingordi perché ciò che si ama si deve mantenere in vita.

La “Grande Rogazione”, festa dell’Ascensione nell’Altipiano

L’Altipiano è cambiato, ma cosa resta delle tradizioni? Per esempio della festa della vigilia dell’Ascensione che lei ha raccontato in molti libri?

La facciamo anche quest’anno. E alla fine di febbraio abbiamo “chiamato la primavera”. Sono feste che hanno origini precristiane tipiche dei paesi nordici dove le notti e gli inverni sono lunghi. Poi si sono trasformate e nel tempo si è anche persa in parte la sua sacralità.

Continua la tradizione delle ragazze che offrono ai ragazzi un uovo dipinto, simbolo importantissimo dell’inizio della vita.

In ‘Amore di confine’ lei ricorda la Pasqua del ’44 in Polonia, nei campi di lavoro, e quella bambina che le regalò un uovo, quasi un segno divino

Certamente era un segno di speranza mentre eravamo disperati, non disperati… cercavamo di sopravvivere. Quella fu una Pasqua molto particolare, ricordo bene quel pranzo in cui tutti noi mettemmo quel poco che avevamo in un’unica minestra. Le nostre sentinelle erano SS e ci facevano lavorare da buio a buio alla ferrovia, sotto le intemperie e si mangiava solo quando si rientrava. Il giorno di Pasqua abbiamo scelto di mettere insieme tutto quello che avevamo e abbiamo fatto questo minestrone incredibile: pane biscotto, farina, rape, riso, piselli secchi, cavoli: era sostanziosa e ci pareva ottima.

Nei suoi racconti di montagna e di guerra si parla molto di minestre e minestroni, ma soprattutto di polenta. Quanto conta il rito della polenta?

La polenta si mangia tutti insieme quando è calda. Si mette in mezzo alla tavola ed è un momento di comunione. Attorno alla tavola si può anche litigare ma ci si scambia le idee, si può parlare, ragionare, fare dei bilanci, cosa che non riesce se si ha frigorifero aperto e televisione accesa. Ora spesso si apre il frigorifero e ognuno tira fuori quello che gli piace, è la regola del fastfood. Mangiare in fretta non ha senso.

La vacca burlina

A proposito della difesa delle tradizioni, sull’Altipiano c’è stata una vera e propria guerra per difendere la mucca Burlina fin dai tempi del fascismo.

Sì, questa varietà era scomparsa, e adesso si sta cercando di reinserirla. La vacca Burlina è un animale indigeno, molto longevo ma produce meno di altre mucche che sono vere fabbriche di latte. Sembra da alcune analisi del pelo che siano venute dalla Danimarca con i popoli del Nord, i nostri antenati. Durante il Fascismo si era deciso che questa razza di mucca doveva essere sostituita con la swit, più produttiva, ma gli allevatori si ribellarono e alcuni vennero arrestati.

Io che ero un ragazzo ricordo un uomo che aveva nascosto un toro di Burlina in cantina e poi in un tunnel della Grande Guerra per continuare a mantenere la specie. Si è finiti al processo e i nostri allevatori hanno avuto ragione: non si poteva imporre una razza se loro non erano d’accordo. Il latte della Burlina è molto più buono, il formaggio è diverso ma non tutti se ne rendono conto.

Ci sono ancora molte malghe sull’Altipiano?

Per fortuna sì. Abbiamo malghe molto produttive con 120, 130 capi che rendono bene e i prodotti sono già venduti prima ancora di farli.

Anche se al posto dei famigliari, che vanno lontano a studiare per diventare dottori e avvocati, ora il casaro impiega gente dell’Est, dalla Romania, Bulgaria o Polonia.

Tempo fa Slow Food ha organizzato una manifestazione dedicata al formaggio a latte crudo e io sono caduto dalle nuvole: cosa vuol dire a latte crudo, esiste un formaggio a latte cotto?

Io non ho mai pensato che si potesse cucinare il latte prima di fare il formaggio, la temperatura del latte dipende dal tempo: se è caldo, se è freddo, se è umido o secco, tra i 34 e i 36, i 37 gradi al massimo, si fa la cagliata e basta.

Nei suoi libri ci sono i ricordi di lei bambino intorno al fuoco ad ascoltare i racconti con sua zia che faceva il vin brulé con la cannella. Quanto questa tradizione orale è stata importante per il suo diventare scrittore?

Non erano tanto i racconti in sé quanto quel modo di vivere. Magari sentivo solo metà racconto, magari veniva qualcuno a parlare con mio nonno ed io ero curioso e mi mettevo ad ascoltare i loro affari che avevano attinenza con la vita. Quando poi ho imparato a leggere leggevo moltissimo, prima i libri delle fate e di Mamma Oca poi più grande quelli di avventura, Salgari e Verne e poi Conrad e Stevenson. Oggi i giovani non sono più così curiosi e sono anche piuttosto arroganti, di una sicurezza spaventosa. Quando eravamo giovani noi facevamo molta attenzione a cosa dicevano gli anziani, ora hanno quattro vacche e pensano di sapere tutto.

Si riferisce ai giovani che dalla città tornano in campagna?

È un disastro perché non sono capaci di riprendere un’attività che non hanno conosciuto, senza maestri che li guidino.

Fanno formaggi di tutte le forme e misure, dieci tipi di formaggio uno diverso dall’altro e nessuno è buono, li vendono e ci guadagnano soldi perché i turisti comprano tutto. Non è però quella la strada, devono prima imparare come si deve fare e rispettare le tradizioni.

Intervista di Chiara Ugolini tratto da Slowfood, num 27 (giu 2007)

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1 Comment

  1. Antonio Ciannella

    Profondo conoscitore dell’uomo e della natura un maestro di caccia e di vita

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