CACCIATORI DI MONTAGNA, DI BECCACCE E BECCACCINI

Il più felice non è assolutamente chi ammazza di più ne tantomeno chi trova di più e neanche chi ha i cani migliori, il più felice è semplicemente colui che trae il maggior godimento e divertimento nel trascorrere il tempo nel bosco o in montagna dietro la coda del proprio cane inseguendo le prede desiderate…….."magari in solitaria nel più alto rispetto di chi e di cosa lo circonda"

INCONTRO ERGO SUM di Gian Franco Grosso

Tilò, vincitore del trofeo Saladini 2010, e la Bahia di Battanello con Gian Franco Grosso

Gian Franco Grosso con il setter Tilò, vincitore del trofeo Saladini 2010, e la pointer Bahia di Battanello .

Ovunque legga di prove cinofile e qualunque diatriba si accenda sul valore di queste ultime in rapporto all’attività venatoria, ho constatato il grande rilievo che gli esperti del settore, giudici, allevatori e conduttori, attribuiscono al c.d. cane incontrista. Si inneggia all’importanza di questa qualità come unità di misura della venaticità di un ausiliare, dote che insieme allo stile di razza e al coraggio dovrebbe rappresentare il trait d’union tra la caccia e le prove. Da più parti si chiede di non trascurare il c.d. istinto del selvatico, quello che Colombo riteneva “qualità non apprendibile in un cane da ferma”.  Spesso si esalta il coraggio del trialler proprio inquadrandolo nella  capacità di rischiare al di là del metodo abitualmente usato sul terreno al fine di trovare quell’unico selvatico che si nasconde sul terreno.

Tutto bene se ci si limita alla lettura delle riviste specializzate o ad ascoltare le relazioni ad un convegno. I problemi arrivano quando quel tipo di cane te lo trovi di fronte in prova. Come sarà giudicato quel trialler che durante una esaltante prestazione in una prova di grande cerca abbandonerà il lacet previsto o prevedibile per sfondare in un aggancio mozzafiato sulle starne? Un disordinato? Ci si domanderà quante starne ha lasciato su quel terreno inesplorato per trovare quella coppia più in là? E se ciò si ripetesse più volte è prevedibile che venga additato come un fuoriclasse venatorio o come un pazzo senza metodo?

E come la mettiamo se nel Gramignani ci imbattiamo in un soggetto che in barba alla “cerca ordinata” si aggiudica punti su beccacce sul filo del “fuorigioco”? Un grande cacciatore di beccacce oppure un fanatico del fuorimano? Ancora, se in montagna abbiamo la “sfortuna” di imbatterci in un cane che se ne frega delle apparenze e punta dritto alla sostanza, realizzando uno score di risultati utili imbarazzanti, lo esaltiamo per l’istinto o lo puniamo per il metodo? Gli riconosciamo la qualità di trialler, sulla base del coraggio dimostrato nell’andare a rischiare sempre la concretezza di un incontro nei miseri 20’ a disposizione, o lo consideriamo un coglione che non è in grado di capire come affrontare il terreno di montagna per meritarsi un richiamo?

Sono tutte domande a cui credo il mondo agonistico della cinofilia venatoria debba rispondere se vuole veramente decidere che cosa si cerca nelle prove e a chi ci si vuole rivolgere. Perché se la prestazione agonistica di un cane deve essere fine a se stessa, se deve realizzare il  bisogno edonistico degli addetti ai lavori, allora ci si può anche fermare qui e chiudere qualsiasi dibattito: la ricerca del bello a prescindere dalla concretezza può essere una scuola di pensiero e la rispetto per questo. Ma se il fine ultimo della cinofilia sportiva è quella di offrire al mondo venatorio prodotti che si avvicinino il più possibile al “bello e bravo” allora bisogna convincersi una volta per tutte che vale 100 su 100 sia la raffinatezza della prestazione quanto la sua concretezza, quando ovviamente nel 100 di una rientra almeno il 50 dell’altra.

Io non sono un esperto di giudizi né un dotto in materia, sono solo un cacciatore/conduttore che ama le prove e di cui ne riconosce l’importanza, tanto da parteciparvici, ma proprio da cacciatore di montagna e di beccacce posso garantirvi che esistono, tra i bravi cani, due tipi di cani da caccia: quelli che per trovare la selvaggina hanno bisogno di un metodo e di un’impostazione sul terreno che spesso gli è data dall’uomo, perché hanno come scopo primario quello di cercare e nel cercare bene trovano meglio;  quelli che sul terreno di caccia non hanno bisogno di alcun metodo umanamente insegnato, perché il metodo loro ce l’hanno già in testa, perché nascono predatori con lo scopo unico e primario di trovare ancor prima di cercare. Questi ultimi sono quelli che alla fine della giornata di caccia fanno sempre la differenza, che ti lasciano stupito e meditabondo, come dopo un bel film o una bella canzone, con un messaggio da interpretare.   

a cotorni in primavera di Gian Franco Grosso

A cotorni in primavera di Gian Franco Grosso

Ovviamente quando parlo di un cane che in barba ai nostri metodi e alle nostre elucubrazioni mentali ha l’autonomia di trovarsi un selvatico non intendo un cane privo di collegamento, ingestibile o fuorimano, parlo di un cane che non perde tempo a disegnare la montagna o il bosco  come i manuali vorrebbero, ma che sulla base del proprio inafferrabile istinto, nonché della propria esperienza e intelligenza venatoria costruitasi sul campo, individua i possibili luoghi di ricetto dei selvatici e là li trova, li ferma e li tiene sfruttando quella dote che si chiama  concretezza, cioè la capacità di trovare nel minor tempo possibile il maggior numero di selvatici presenti sul terreno.

Ecco, secondo me la cinofilia agonistica, oltre ai grandi stilisti, ha bisogno anche di questi cani, dei grandi incontristi, che dovrebbe cercare di capire e di valorizzare quanto gli altri, invogliando i timidi appassionati cacciatori-cinofili a farli emergere dall’oscurità di un bosco o dal silenzio della montagna, spronandoli alla partecipazione nelle prove che più si avvicinano alla realtà venatoria, come le prove di montagna o quelle su beccacce e beccaccini, dove cacciare e trovare diventa essenziale ancor prima di un qualsiasi giudizio sul come e perché. Infatti, se è doveroso che un cane da ferma fermi (e purtroppo anche questo non è sempre scontato) non è altrettanto scontato che cacci:  fermare una beccaccia, un gallo o le coturnici durante un turno metodicamente perfetto non significa ancora saper cacciare quei selvatici, perché cacciare (sia per un cane che per un uomo) significa intuire, riconoscere, percepire, soffrire ed osare… e solo i numeri in questo campo esprimono verità assolute. 

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2 Comments

  1. enrico ferrari

    tutto perfetto infatti,il grande problema di oggi,e’ trovare cani che rispondano(a caccia)a quanto asserito nello scritto o,chi e’ fortunato e ne possiede,se ne guarda bene(giustamente),di diffonderne il germe….lo dice uno che capisce perfettamente quanto scritto nell’articolo avendo posseduto un cane siffatto e,stando ora diventando matto,per cercare qualcosa che almeno si avvicini a quello….

  2. Marcello Villa

    E’ una questione di cacciatori e di giudici. I primi se il cane va in profondità per inseguire le sue percezioni di selvatico e seguendolo avranno l’opportunità di concludere sull’animale fermato, ne saranno ben lieti e lo apprezzeranno, se no rimpiangeranno i selvatici lasciati più in basso e trovati da altri quindi, quando l’azione si ripeterà saranno giustamente scettici.
    I giudici si regoleranno alla stessa maniera. Se un cane che disegnando una diagonale non l’abbandona per seguire il filo conduttore che anche a grande distanza lo porta sul selvatico è privo di raziocinio perfettamente quanto il cacciatore e il giudice che non lo capiscono quando lo fa. Ma per essere buoni giudici è necessaria una buona esperienza di caccia e non ci vorrà molto per capire queste azioni. I cani sono come gli amici: quelli bravi quando girano la costa del monte e non li vedi tornare li trovi in ferma, gli altri li vedi in lontananza che pistano o inseguono ungulati; come gli amici che se sono veri quando li cerchi li trovi, gli altri invece hanno il telefono perennemente occupato o fuori campo.

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