Foto di Stefano Franceschetti

Metto la mano in tasca, prendo il telefonino — anzi scusate — lo smart phone, striscio con classe il dito sullo schermo (non ha più i pulsantini già da un po’), guardo che tempo farà domani, rispondo a un messaggio che lampeggia in un angolo, controllo se è partita una mail di lavoro, dò un’occhiata a chi ha condiviso la mia ultima boiata sul social network del momento, già che ci sono sbircio chi è collegato o da quanto tempo non lo è più… e magari dove è andato a cena ieri sera, rinuncio a una partita a Ruzzle con un Vip della televisione ed ecco che sono finalmente pronto per scattare una foto! Inquadro con un occhio semichiuso, confermo sul display il punto su cui mettere a fuoco, riclicco velocemente et voillà! Ecco fatto! Controllo subito se va tutto bene, aggiungo un filino di colore, una cornicina tipo vecchia polaroid (un po’ di poesia retro…) una scurita alle nubi nel cielo non guasta mai e magari ci butto lì quel filtrino artistico che piace tanto al miei “followers” sulla chat.

Di fatto, oggi, da un piccolo telefonino posso ricevere, inviare, guardare, salvare, inoltrare immagini in tempo reale e incredibile qualità con un numero infinito di persone. Tasto “condividi” e vai! Partono in maniera irreversibile gli mms e le mail intanto che carico contemporaneamente l’immagine su Facebook, Twitter, Instagram e pure sul mio “vecchio” blog! Ma sì dai aggiorno anche l’immagine del profilo che mi ha già stancato e faccio rosicare gli amici seduti in ufficio a lavorare! Dieci secondi di attesa… e, se la ciambella é riuscita col buco, cominciano a piovere gli attesi e gustosissimi “mi piace” dal mio migliaio di amici reali e (soprattutto) virtuali! Mai avuto tanti consensi in vita mia! Sarò mica diventato simpatico?! Un artista?! Chissenefrega, sono in piena sindrome: quasi estasiato da una sorta di deliziosa dipendenza di far sapere a tutti quello che sto facendo! le critiche non le vedo e non le sento, mi piacciono solo i “Mi piace!”. Migliaia di copie in ogni angolo del mondo con un solo colpo di polpastrello! Desktop, album, gallerie, tagga qua, tagga là e se mi votate su Flickr prometto meno tasse e più screensaver per tutti! Chiunque possieda un cellulare, un tablet o un computer sa benissimo che la realtà della fotografia digitale di oggi è esattamente questa, salvo rarissime eccezioni rappresentate da quel pochi irriducibili che ancora non hanno “mollato” la mitica pellicola e ceduto alla tentazione del sito più cliccato del mondo… quello con la F bianca su sfondo blu (ed io ero tra questi, ma come al solito…”dopo la puzza” ci sono arrivato… e ahimè ho desistito su tutti I fronti!). Del resto, come era possibile prima dell’era del web, mostrare al mondo intero le proprie immagini se non si era fotografi davvero famosi? Con libri e mostre forse? Quante persone avrebbero speso denari per una nostra raccolta di immagini o avrebbero visitato la prima “personale” di un perfetto sconosciuto?! Ammetto che, per chi come me aveva degli idoli di infanzia assoluti (i super-eroi della fotografia naturalistica) fa un po’ specie rivederseli oggi, magari in ciabattoni e costumino a fiori in riva al mare a fare i castelli di sabbia con i nipotini! Bhè ecco che forse Internet, nei suoi eccessi, ci ha rivelato anche un lato degli artisti che probabilmente… preferivamo non scoprire!! Quell’alone di mistero sulle 1000 abitudini di vita aumentava, secondo me, ancora di più il desiderio di attendere per anni l’uscita del loro nuovi lavori. Ma avete presente come si faceva a “condividere” una fotografia con un amico (e visto lo sforzo sovraumano che la cosa richiedeva lo doveva essere per forza!) qualche anno fa?!
Siete sicuri di ricordarlo davvero?!

Bene: vedevo una scena irripetibile e stupenda e sentivo il desidera “di registrarla” per sempre e magari — in un secondo tempo – di mostrarla a qualcuno. Mi fermavo, sospiravo, pensavo se avevo ancora qualche “posa” a disposizione, perché II rullino arrivato a 36, se eravamo molto fortunati ci regalava ancora un fotogramma/un fotogramma e mezzo (proprio così: a volte la trentottesima veniva tagliata a metà!). Tiravo giù lo zaino di spalla, aprivo un laccio e due-tre zip, spostavo la borraccia e I panini, tiravo fuori la giacca da pioggia e proprio sotto a tutto – con il suo chilo di peso – era andato a finire l’astuccio della reflex.

Un paio di bottoncini automatici di cui uno semi arrugginito (durissimo) da aprire, tiravo fuori la creaturina di alluminio, giravo l’avvolgitore anche se non ricordavo se era già pronta per scattare dalla volta prima o dovevo andare avanti per non esporre due volte la stessa parte dl pellicola. Toglievo il tappo frontale, una soffiatina sulla grande lente per far volare via la polvere! Un altro sospiro… nel vedere che quelle maledette-introvabili batterie a forma di moneta (acquistabili solo da un orologiaio in tutta la Provincia) sembravano ancora cariche!
Un veloce remember – con le dita sul mento – delle regole dl base: il sole dietro le spalle, Inquadratura ben composta rispettando la regola del terzi, be dal 1/250 di secondo di otturazione dovrebbe andare bene con diaframma f/5,6- messa a fuoco manuale girando la ghiera e clack! Fatto! Stupenda!

E adesso!?

Ci avrò preso con la luce? E con il “mosso” come la mettiamo!? Avevo una tabellina con le profondità di campo ed l tempi di sicurezza…ma dove sarà finita!? Ma la pellicola quanto tempo sarà lì dentro? Sarà ancora “(fresca, bianco e nero o colori? Accidenti avevo tenuto Il talloncino giallo della scatola Kodak per ricordarmi da quanti ASA era „ chissà dove si é infilato!?

Foto scattata e rullino finito, WOW, che fortuna giusto l’ultima! Iniziava il calvario… quello che ha fatto sì che molti abbandonassero per sempre la difficilissima disciplina fatta di immagini e non di parole! Una sorta di selezione naturale: solo uno su cento poteva arrivare alla fotografia stampata, pronta da incorniciare senza incappare in qualche snervante incidente di percorso. Si riavvolgeva con cura la pellicola, ascoltando come uno scassinatore di casseforti il fruscio, perché guai far sganciare il rullo dopo il disk della molla facendo rientrare la famigerata linguetta”! Perfetto! Lasciamo da parte i pazzi (tra i quali mi inserisco pure io) che si mettevano anche a sviluppare e stampare da soli in soffitta… con le mani dilaniate dagli acidi e tormentati nottetempo da dubbi amletici sui tempi esatti di fissaggio e di sviluppo…per non parlare della scelta delle carte: perlate, gloss e semimat (e perché no, dei relativi costi proibitivi)! Il rullino, una volta tornato nel suo barattolino nero con tappo rigorosamente grigio, andava portato come una reliquia al laboratorio: nel viaggio si doveva fare attenzione a non passare attraverso ai raggi X degli aeroporti (per i quali esisteva un apposito -“leggerissimo” – sacchetto di piombo) e non bisognava assolutamente fargli subire pericolosi sbalzi dl temperatura.

Messo finalmente nella busta con il nostro nome e numero di telefono (di casa) ci si lasciava con in mano un pugno di mosche… e cioè solo un anonimo talloncino con un codice per il ritiro, data che veniva vissuta da chi la aspettava, con una felicità paragonabile solamente all’attesa dell’ultimo giorno dl scuola! Un paio di notti insonni e se eravamo davvero fortunati, il giorno concordato tornava Indietro la sognata busta con dentro II “malloppo”! Strappandola letteralmente dalle mani dell’addetto allo sviluppo che ce la consegnava, guardandoci con uno sguardo che faceva sempre temere il peggio, si soppesava subito per capire più o meno quante foto fossero davvero “venute”!

Col cuore in gola si sbirciava dentro, aprendola appena-appena, sperando di non incappare nel frequente scambio di rullino (la pena – se non ricordo male – era di sei anni di reclusione!) cercando di non piazzare subito un paio di ditate indelebili per via del sudore che da ore ci aveva cosparso e unto la fronte! Cercando di ritrovare la salivazione si pagavano – senza battere ciglio – una trentina di mila lire, si portavano via altri due/tre rullini da 12 in omaggio (spesso scaduti!) ed si avviava, completamente scollegati dal mondo reale, verso la poltrona del salotto per verificare se la macchina del tempo aveva funzionato! Solo da quella secolare posizione (già appartenuta al nonno) con una luce che non facesse riflesso e la lentezza da bradipo si potevano guardare e riguardare tutte le foto, per poi infilarle in ordine cronologico nell’albumina! I più lungimiranti scrivevano subito a penna le date dietro le stampe… in vista di future amnesie o ritrovamenti da parte degli eredi in qualche scatola impolverata. Se per sfiga ce n’era una bella…e la cosa grazie a Dio non capitava spesso…e se per altrettanta sfortuna ci veniva l’idea malsana di ingrandire o regalarne (il termine condividere è troppo moderno per quell’epoca) una copia a qualcuno dei nostri parenti (gli amici difficilmente meritavano un dono cosi grande) iniziava il secondo calvario: quello dei negativi! Innanzitutto bisognava pensare per bene quante stampe e di che misura, perché il lavoro e la spesa necessaria andava pianificata nel budget mensile! Dopo di ché, sperando che nessuno ce li chiedesse mai in prestito (visto che è dimostrato scientificamente che nella storia dell’umanità nessuno mai ha restituito un negativo, quasi come se fosse scritto nei dieci comandamenti!) si tiravano fuori queste maledette striscioline traslucide color cioccolata, dove – solo a guardarle – gli si faceva o un graffa o un taglio che comprometteva per sempre la ristampa! Con l’aiuto dei RIS di Parma, poi, si riusciva scoprire quale fosse il numero esatto del fotogramma da riprodurre e si ritornava fiduciosi presso il nostro incubo principale: il laboratorio!

Puntando un coltello alla gola dell’addetto e con gli occhi di Jack Nicholson in “Shining” lo si minacciava di morte affinché facesse la nuova stampa con i colori identici al “provino” e non si azzardasse a rovinare o smarrire l’unico originale esistente — cosa peraltro mai ottenuta da nessuno. Si aspettavano un altro paio di giorni interminabili. Sborsato un altro capitale si ritirava la foto ingrandita, che per forza di cose non andava bene nemmeno nella cornice appena acquistata e allora si ritornava una terza volta dal fotografo per farla rifilare un po’ con la “taglierina”. Lui, esausto, II più delle volte mozzava per ripicca i piedi o la testa a qualcuno! Poi si tornava a casa questa volta alla scrivania e si rimetteva — come prima regola – il negativo al suo posto, (rigraffiandolo a dovere) mentre la cornice, tutta bella avvolta nella carta da imballaggi in una busta. Un bel giro dal tabaccaio per pesare il tutto, un paio di francobolli amarissimi da leccare, una ricerca del CAP esatto presso l’almanacco presente solo all’ufficio postale e via, in qualche giorno il regalo partiva con una bella scritta “Fragile – non piegare”! Se i destinatari erano persone educate, dopo circa un’altra settimana squillava il telefono di casa (dopo le 20 perché costava meno) ed eravamo finalmente orgogliosi di trovare dall’altra parte del filo una voce quasi commossa per la dedica strappa-lacrime firmata sul retro! Ci ringraziava infinitamente, parlandoci con un tono di immensa stima per l’impresa svolta, più o meno, come se avessimo scalato un ottomila senza ossigeno! A questo punto, al fotografi più capaci capitava un piccolo inconveniente: “Mm sai, la foto talmente bella che ne vorrei mettere una anche nella mia casa in montagna… non è che mi presteresti i negativi!!?? Appena ho fatto te li rispedisco…giuro!”