CACCIATORI DI MONTAGNA, DI BECCACCE E BECCACCINI

Il più felice non è assolutamente chi ammazza di più ne tantomeno chi trova di più e neanche chi ha i cani migliori, il più felice è semplicemente colui che trae il maggior godimento e divertimento nel trascorrere il tempo nel bosco o in montagna dietro la coda del proprio cane inseguendo le prede desiderate…….."magari in solitaria nel più alto rispetto di chi e di cosa lo circonda"

La reintroduzione della starna e della pernice rossa secondo Lucio Scaramuzza

L’abbandono dei terreni soprattutto nelle parti alte della collina e sicuramente della montagna sono state l’ultima causa, il colpo di grazia si potrebbe dire, della sparizione della starna e anche se un po’ meno, della pernice rossa.

Paradossalmente, però penso che questa situazione oggi presente su milioni di ettari del nostro Appennino possa essere il punto di partenza per la reintroduzione e il ripristino della starna e della pernice rossa, che per noi appassionati del cane da ferma rappresenta l’essenza della caccia. 

L’abbandono dei terreni di alta collina e di montagna del nostro Appennino ha provocato l’espansione del bosco; chi frequenta questi posti vede anno per anno che i campi non vengono più coltivati e anche i prati  non vengono più sfalciati.

Si vedono crescere prima i rovi poi i primi arbusti e nell’arco di tre quattro anni diventano impraticabili; si vedono solo i varchi prodotti da cinghiali e caprioli che aumentano sempre di più nonostante la caccia e il bracconaggio di cui sono oggetto.

Per noi appassionati del cane da ferma tutto questo è diventato un vero problema: non ci sono più neppure gli animali al pascolo e anche le zone un tempo pulite dove cresceva soltanto il ginepro sono invase dalle erbacce prima e successivamente, dal bosco.

Tutto questo deve farci riflettere e farci capire che l’aumento degli ungulati, un tempo neanche troppo lontano, completamente assenti dal nostro Appennino, oggi stanno crescendo in virtù del fatto che l’habitat a loro necessario è diventato e continua a diventare sempre più presente sulle nostre montagne, portando via anno per anno gli spazi aperti o coltivati necessari al tipo di selvaggina che noi amiamo.

Proprio in virtù di queste considerazioni penso che si possa dire con certezza che é l’ambiente che crea il tipo di  selvaggina; quindi, se vogliamo gli ungulati dobbiamo lasciare proseguire questo trend e nell’arco di pochi anni avremo tutto il nostro Appennino coperto di boschi e ricco di ungulati di vario genere.

Ma viceversa, se vogliamo ancora provare seriamente a riportare le starne e le pernici rosse sul nostro territorio è chiaro che l’unica strada logica e percorribile per sperare d’avere qualche successo, è sicuramente quella di ripartire dall’ambiente, riportandolo alle condizioni che aveva fino a trent’anni fa. Far adattare la selvaggina all’ambiente attuale non produce risultati. Questa pratica, che può sembrare più semplice è stata messa in atto fino ad ora da tutti coloro che hanno fatto qualche tentativo, rivelatosi però, inevitabilmente un fallimento; il fallimento è dovuto sia all’incompatibilità genetica di questi animali con questo ambiente privo di spazi aperti, privo di coltivi,e ricco solo di rovi, erbacce e bosco,ma anche per la presenza massiccia del cinghiale,che è molto peggio della volpe sia nel reperire e distruggere i nidi, sia nel nutrirsi di nidiacei.

E’ quindi indispensabile riportare i terreni alle condizioni di trenta quarant’anni fa.

A mio parere, bisogna accettare il fatto che i proprietari tornino a coltivare i terreni come un secolo fa è cosa alquanto impossibile.

Gli animali che noi vorremmo reintrodurre sono animali legati completamente al tipo di agricoltura che viene praticata e assolutamente incompatibili, per esempio, con gli attuali concimi granulari, di cui purtroppo si nutrono e poi muoiono; oppure, le covate vengono distrutte dalle veloci falciatrici meccaniche… potremmo andare avanti così per un sacco di altre innovazioni tecnologiche assolutamente incompatibili con la crescita e lo sviluppo di questi stupendi animali.

Oggi questi stessi terreni, un tempo ricchi di selvaggina minuta e stanziale, secondo me, proprio perché abbandonati, possono essere messi a disposizione per tentare seriamente un’operazione di questo genere.

Si tratterebbe di costituire un accordo con i proprietari dei terreni,su aree adeguate e mai troppo piccole e pensare ad un’“agricoltura” rivolta alla produzione di selvaggina allo stato naturale.

Dove ovviamente la selvaggina non dovrebbe più essere considerata “res comunitatis”, ma ovviamente di proprietà dei vari agricoltori, proprietari dei terreni.

Cosa significa in concreto un’agricoltura rivolta alla produzione di selvaggina naturale? Significa, innanzitutto, ripulire i terreni dai rovi e dal bosco eccessivo, sfalciare i prati, ripulire i corsi d’acqua per permettere il deflusso delle acque nelle piene primaverili e autunnali; ripulire le sorgenti e riportarle ai vecchi splendori per permettere alla selvaggina di abbeverarsi nei periodi di siccità; rimettere un po’ di animali al pascolo per ripulire dalle erbacce che soffocano i vecchi pascoli; ripristinare le vecchie strade che permettevano di accedere ai campi agevolmente e a macchia di leopardo fare tante piccole “culture a perdere” destinate ad aiutare gli animali soprattutto nel periodo invernale.

Solo a questo punto possiamo pensare, visto che non nascono come i funghi, di reintrodurre la selvaggina con tutte le tecniche che sono state sperimentate. Purtroppo fino ad ora si è fatto esattamente il contrario; l’unica azione intrapresa è stata quella di immettere selvaggina prendendo atto che l’ambiente era quello che era, ma senza fare mai nulla per ripristinarlo.

Mi rendo perfettamente conto che quello che propongo è una cosa lunga, difficile e costosa; richiede sicuramente un duro lavoro fatto con determinazione e soprattutto nei primi anni senza soverchie illusioni, perché creare un ceppo di questi animali autoctono,non è facile. Ma sono assolutamente convinto che questa e solo questa sia la strada percorribile per avere qualche possibilità di successo.

Oltre a ciò, un ripristino di questo genere creerebbe in automatico la drastica diminuzione degli ungulati, cioè cinghiali  e caprioli e a seguire e come conseguenza, la drastica diminuzione del lupo.

 

Ma questa “strana” agricoltura, mai pensata in Italia, ma praticata con grande successo in molti altri stati europei, (vedi Scozia), non impedirebbe ai vari agricoltori di ritornare a coltivare con colture biologiche alcuni terreni; i prodotti biologici, oggi cosi richiesti, potrebbero essere venduti cosi come vengono prodotti, oppure, trasformati; si può vendere il frumento o si può vendere il pane, possibilmente cotto nei forni a legna; si possono vendere le patate, o si può vendere il pane fatto con le patate, o gli gnocchi, o la torta di patate. Tutto questo innescherebbe un circolo virtuoso assolutamente compatibile con gli animali che noi vogliamo reintrodurre. 

Sarebbe un modo da un lato di rivalutare terreni oggi abbandonati con scarsissimo valore commerciale, e dall’altro, dare attraverso la selvaggina un reddito ai proprietari dei terreni; soprattutto  si creerebbero posti di lavoro sia direttamente attraverso questa attività, sia nell’indotto.

A chi si rivolge un “prodotto agricolo” come questo? Mi riferisco alla selvaggina… Istintivamente e secondo una certa logica potremmo dire al Cacciatore. Io invece, dico che soprattutto all’inizio dovrebbe rivolgersi a quella branca di cacciatori cinofili, che oggi  fanno carte false per portare i loro cani su terreni ancora ricchi di questi animali in giro per l’Europa solo per fare dressaggio, ma anche solo perché si divertono a far incontrare ai loro cani selvaggina vera.

Avere selvaggina vera, nata fuori, ambientata e quindi capace di difendersi dalla volpe, dal falco e dall’uomo avrebbe un valore autentico davvero importante e darebbe la possibilità a molti che non possono permettersi di andare all’estero, di preparare i propri cani. Inoltre, limitandoci al solo rinvenimento senza sparo, sarebbe una garanzia per il perpetuarsi di queste popolazioni e permetterebbe all’infuori del periodo della riproduzione a tante persone di frequentare tutto l’anno questi territori.

Voglio solo aggiungere una nota sul collocamento altimetrico della zona.

Sarebbe, secondo me, da preferire la zona alta della collina e la montagna per i seguenti motivi:

1°) perché come già detto, queste zone sono quelle più abbandonate e i terreni sono più facilmente messi a disposizione per un’agricoltura non convenzionale, assolutamente naturale o biologica, fatto importantissimo per i motivi su esposti

2°) se i terreni sono al di sopra dei 600 m, sono privi di forasacchi; per chi pratica la caccia con il cane da ferma o per chi fa solo cinofilia sa perfettamente quanto questo aspetto sia importante se non addirittura determinante per la frequentazione o meno di un determinato territorio.

3°) L’altitudine aiuta molto nel periodo estivo, a differenza della pianura o della bassa collina dove in estate è praticamente impossibile uscire con i cani per l’eccesso di caldo; la montagna permette anche in piena estate di uscire con i propri cani e nel momento in cui il territorio verrà messo a disposizione dei cinofili offre la possibilità di essere frequentato a partire dal mese d’agosto e oltre, offrendo maggiori introiti.

Penso anche che il successo di un’operazione di questo genere potrebbe essere ripetuta lungo tutta la dorsale appenninica e con la frequentazione non solo del cinofilo, ma anche del cacciatore vero e proprio, ovviamente con prelievi mirati. Tutto questo provocherebbe un’ulteriore grande vantaggio e alleggerirebbe enormemente la pressione sulla migratoria e in particolare sulla beccaccia. 

Alla fine di tutto questo bel discorso penso che tutti coloro che hanno avuto la pazienza di leggere quanto ho scritto si siano posti la fatidica domanda “ma i soldi per fare un’operazione di questa entità chi ce li mette?”

E si perché di soldi ce ne vogliono tanti.

Tanti perché occorre avere a mio giudizio un grande territorio, almeno 5/6mila ettari. Gli animali, soprattutto all’inizio, tendono all’erratismo prima di adottare e quindi eleggere quello come il loro territorio. Ma un conto è pulire 500/1000 ettari e altro conto è pulire 5/6000 ettari ; un conto è liberare qualche centinaio di capi, un conto è liberare qualche migliaio,per i primi 4/5 anni, a cui preparare capannine dislocate sul territorio sempre ricche di alimenti subito disponibili e da loro facilmente riconoscibili…

E’ chiaro che non è certo possibile chiedere soldi agli agricoltori di montagna, che già con l’abbandono quasi totale dei loro terreni ci hanno raccontato che era impossibile vivere lì.

Penso che l’unica cosa vera che noi dobbiamo fare, una volta trovato il territorio adatto e disponibile, sia quello di affrontare un progetto che riguarda il territorio interessato nel suo complesso e che preveda non solo i lavori di ripristino agricolo del territorio, ma anche le strutture di ricezione, ad esempio, un paio di agriturismi, una piccola azienda agricola con un indirizzo zootecnico corredata di quelle strutture rivolte alla prima trasformazione dei loro prodotti. Se parliamo di vacche dobbiamo pensare ad un piccolo caseificio; se parliamo di maiale dobbiamo pensare ad un piccolissimo macello in modo da offrire tutti i prodotti che servano ad accogliere bene coloro che vorranno fermarsi a mangiare e dormire all’interno di questo territorio.

Tutto questo potremmo presentarlo alla Comunità Europea e sono sicuro che potrebbe essere accolto se il progetto fosse fatto bene, magari con l’aiuto della Facoltà d’Agraria, per uno studio attento sulla sistemazione e sulle colture da praticare; oppure, con l’aiuto della Facoltà d’Architettura per studiare le nuove strutture assolutamente compatibili e perfettamente inserite nel territorio; infine, la Facoltà di Economia, perché tutte le iniziative siano economicamente compatibili con buoni risultati.

Si potrebbe, in estrema sintesi, per la prima volta in Italia, far rivivere grazie alla caccia un territorio abbandonato, offrendo soprattutto ai giovani che non vogliono abbandonare la loro montagna, (e ce ne sono più di quanto si creda), una concreta possibilità di una vita dignitosa che valga la pena di essere vissuta.

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1 Comment

  1. Carlo Gastaldi

    Condivido al 100% quanto espresso. Purtroppo, discutendo con personaggi del Parco di Capo Caccia in Sardegna ho sentito un concetto assurdo: sarebbe un modo di mercificare la natura.
    Invierò subito a questo sito un mio articolo in cui in modo diverso affronto lo stesso argomento. Parlo di “gestione del bosco e della selvaggina” ipotizzando Riserve Consortili di 5-10 comuni.
    Comunque: complimenti!
    Sarebbe ora che la POLITICA, non quella cosa che abbiamo in Italia, si occupi di natura e di creare lavoro. Cosa fattibile solo con progetti simili a quello esposto!

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