Foto di Mario Salomone

La peculiarità della caccia è di avere solo protagonisti (a differenza di altri sport che hanno anche spettatori), ed essi stessi hanno difficoltà  a darne una definizione.

infatti, se ad un cacciatore si chiede perché va a caccia, la risposta sarà: “perché mi diverte”.

Una risposta che non dice nulla, ed è analoga a quella che potrebbero da­re i praticanti di tutte le attività ludiche, come il gioco e lo sport dilettantistico.

Queste attività umane non sono praticate per conseguire utilità pratiche, ma sono svolte se si vuole, quando si vuole e per il tempo che si vuole (con sacrificio di tempo, di energia e spesso anche di denaro).

La comune molla di queste attività è che provocano il “divertimento”, cioè quella speciale sensazione di benessere psico-fisico, che trova riscontro inequivoco nell’appagamento consimile, conseguente la soddisfazione di un istinto (fame, sete, sesso, ecc.).

Gli istinti (comuni a uomini e animali) consistono in reazioni automatiche a certi stimoli, fissati geneticamente e preordinati all’autoconservazione: sono espres­sione di un valore adattativo essenziale per la sopravvivenza, legge fondamentale della natura, come tutte le pulsioni spontanee.

Anticipando le conclusioni la mia opinione è che nell’uomo l’istinto venato­rio primordiale (comune agli animali predatori carnivori) cova ancora oggi nel profon­do dell’animo sotto la cenere della cultura, dell’educazione, della volontà e nell’eser­cizio venatorio trova la sua massima espressione.

Se si analizzano gli aspetti delle attività umane, che normalmente si svol­gono nel rispetto delle norme giuridiche e delle consuetudini sociali, si può riscontra­re che la funzione di queste ultime è quella di incanalare la volontà di primeggiare in forme socialmente utili.

Tuttavia quando vengono meno i freni inibitori, riemerge l’istinto atavico antropologicamente connaturato alla natura umana, nelle originarie forme della vio­lenza e della competizione, come ha accertato lo studio sull’universo occulto istintua­le della moderna psicoanalisi.

Le esigenze della caccia (fonte prevalente di alimentazione) hanno con­corso a plasmare il cervello dell’uomo primitivo, fornendo stimoli funzionali alla caccia armi e strumenti; ha un ruolo culturale per le conoscenze sull’ambiente naturale, sul­la selvaggina, sulle tecniche di caccia; ha un ruolo “magico” e religioso, perché pre­siede e sovrintende a sacrifici, riti e cerimonie ha una funzione genetica perché tra­smette i suoi geni scegliendo le donne migliori.

Per milioni di anni ogni sforzo, ogni pensiero, ogni risorsa creativa dell’uo­mo si è concentrata nell’invenzione di armi più efficaci e micidiali, e in strategie più raffinate per rendere più fruttuosa la caccia.

La necessità del cacciatore di avere una migliore visione panoramica, ha indotto l’ominide ad “inventare” la stazione eretta, liberando nel contempo le mani (nei primati adibite alla deambulazione) che sono divenute abili per svolgere le più varie utilità.

La caccia ha favorito la socialità perché l’unione delle forze di più persone aumentava le probabilità di successo contro i grandi erbivori e la difesa contro le fie­re; ha prodotto la struttura gerarchica, necessaria per evitare conflitti sulla spartizio­ne del cibo, sulla scelta delle donne, sulla posizione di comando (che deve essere unitaria) e sulla attribuzione dei ruoli nel clan e sullo svolgimento delle battute.

Le azioni collettive dei cacciatori si sono progressivamente evolute in for­me sempre più collaborative e sociali (ad esempio il cibo non viene consumato sul posto, ma portato all’accampamento e diviso) e queste sono stati potenti coefficienti di progresso (dalla famiglia, al clan, alla tribù, alla “gens”, alle nazioni).

La caccia ha favorito la comunicazione (poi evoluta in linguaggi) perché il coordinamento dei cacciatori esige rapide e sicure intese; ha imposto un controllo dell’aggressività perché il successo esige programmazione di comportamenti, pa­zienza, scelta del momento opportuno.

La caccia ha avuto un ruolo culturale perché il cacciatore deve conoscere le leggi della natura, l’ambiente, il clima, le abitudini degli animali, la anatomia e le tecniche di macellazione; deve saper utilizzare la pelle e le ossa delle prede; deve saper leggere nella polvere, nel fango, nei rami spezzati, nelle erbe calpestate, nelle feci e in altre deiezioni ciò che è utile alla battuta; deve saper fabbricare e usare utensili e armi. La caccia ha spinto alla migrazione dei popoli, allorché le aree tradizionali si sono impoverite di selvaggina.

Inoltre il patrimonio di esperienze e di conoscenze dei cacciatori che deve essere trasmesso da una generazione alla successiva, ha valorizzato la funzione dei vecchi, ricchi di esperienza, dando origine alla società patriarcale, nella quale essi non vengono più abbandonati, perché le loro conoscenze sono indispensabili ai più giovani.

Infine l’alimentazione prevalentemente a base di carne, con il suo conte­nuto calorico di grassi e proteine, ha fornito sostanze fondamentali per il migliora­mento della razza.

il legame strettissimo tra la sopravvivenza e la caccia è testimoniato in modo inequivoco dal fatto che l’istinto fondamentale dell’uomo è rimasto ancora oggi quello del predatore carnivoro, con tutte le sue implicazioni: la psicologia moderna ha trovato in esso una miniera di simboli, archetipi, schemi che sfuggono alla co­scienza, ma sono tessere di un mosaico che rimandano al primordiale istinto vena­torio.

Oggi la paleontologia, fa paleoantropologia, l’anatomia comparata, la neu­rofisiologia e l’etologia sono concordi nell’attribuire all’uomo una natura animale, e più precisamente quella del predatore carnivoro cacciatore e tutte le scienze ricono­scono dunque che nessun’altra attività umana ha fornito un impulso paragonabile a quello della caccia per l’evoluzione e il progresso dell’umanità.

Ma in aggiunta alla sua natura “animale” l’uomo è fornito di una sua esclu­siva linea evolutiva, lo “sviluppo intellettivo” cui si deve il successo biologico della specie umana, che gli ha consentito di dominare tutti gli animali e la stessa natura dopo averne conosciuto le leggi.

Nell’uomo civile l’educazione, la volontà, la cultura, i principi morali, le leg­gi sono in grado di tenere a freno l’istinto: ma allorché un fatto contingente (stress, ira, paura, gelosia, attività ludiche, sport) allenta la barriera dei freni inibitori, l’istinto primordiale torna ad esprimersi con i caratteri tipici del predatore carnivoro (aggressi­vità, desiderio di prevalere, territorialità, solidarietà verso i consimili e ostilità verso gli estranei, difesa della proprietà, ecc.).

La persistenza dell’istinto venatorio nell’uomo, di oggi, quando la caccia ha perso da migliaia di anni la funzione alimentare, è spiegata dalla estrema lentez­za (migliaia di anni) che le modificazioni genetiche impiegano sia nel fissare gli istinti che nel modificarli: l’agricoltura risale a circa 16.000 anni, mentre ominide risale a forse 20 milioni di anni.

Le scienze antropologiche e sociologiche concordano nel ritenere che ieri come oggi la competizione tra individui scatta ogni volta che si debbano conseguire risorse la cui disponibilità è limitata: il dato primigenio della violenza istintuale (tipica del cacciatore guerriero) non è accettato dai pacifisti solo per motivi ideologici.

La catena alimentare, con le sue leggi “spietate”, il fatto che ogni specie per sopravvivere danneggia necessariamente altre specie e i rapporti tra predatore e preda, smentiscono l’ipotesi di una natura idilliaca, dove tutti sono in pace con tutti.

Le strutture sociali e istituzionali della società moderna sono finalizzate a prevenire la soluzione di conflitti, devolvendoli ad organismi imparziali a ciò deputati (sindacati, politica, sistema giudiziario, regole di riconoscimento del merito, ecc.), per evitare lo scontro fisico, di forza.

La selezione basata sul merito, gli esami, i concorsi, le carriere, le valuta­zioni comparative di ogni tipo non sono forse forme di disciplina della competizione?

Anche negli sport dilettantistici, (proprio in quanto diretta espressione del­l’istinto), l’elemento della competizione, cioè una forma di aggressività per prevalere, è costante, e marca la differenza tra la semplice educazione fisica e lo sport.

La caratteristica comune a quasi tutti gli sport è che essi si fondano sulla fisicità, che ne risulta migliorata e accresciuta: prevale chi è più forte, più scattante, più reattivo, più competitivo.

Poiché nella natura nulla è senza scopo, ci deve essere una pulsione istintuale di sopravvivenza per indurre tanti individui alla pratica sportiva che ha as­sunto grande importanza sociale ed economica.

Se l’istinto spinge al miglioramento della prestanza fisica (che lo sport po­tenzia) ciò avviene perché questa era la dote più necessaria al cacciatore primitivo: fino all’invenzione della polvere da sparo l’efficacia nel maneggio delle armi dipende­va dalla forza fisica e dai riflessi di chi le maneggiava.

Sempre nelle antiche comunità tribali il mantenimento della più alta effi­cienza fisica nelle pause della caccia, era assicurato da attività fisiche: riti propiziatori e di iniziazione, da danze, lotte incruente, lanci, corse, prove di forza e di destrez­za, che gli sport attuali imitano?.

Non è un caso che quasi tutti gli sport olimpici evochino esercizi mutuati dalla caccia antica (lancio del martello, del disco, del giavellotto, corse, salti, ecc.).

E ancora: se gli sport più diffusi attualmente si basano quasi tutti sul con­trollo dí una palla (golf, basket, volley, baseball, pallamano, tennis, pallanuoto, polo, ecc.) anche questo non può essere accidentale perché l’istinto non si manifesta a caso.

lo ritengo che i rimbalzi irregolari e guizzanti della palla eccitino quella por­zione dell’area cerebrale umana, ove ha sede l’istinto venatorio, che al saettare della sfera ravvisa in essa il simbolo remoto ma inequivoco della selvaggina che fugge e stimolano la reazione di cacciatore.

Di fronte al lancio di una palla elastica, bambini e cuccioli di animali preda­tori carnivori, reagiscono allo stesso modo: la inseguono per controllarla, la rilancia­no, la rincorrono.

Se al gioco partecipano più individui tra loro scatta una gara per prevalere e marcare la supremazia.

Tutti riconoscono al gioco dei bambini e degli animali, stimola dall’istinto, la funzione di aumentare il controllo del corpo, la coordinazione, lo scatto, la forza: una simulazione di quello che nella vita reale sarebbe necessario al cacciatore per avere successo.

Così anche la gratificazione che spinge gli adulti allo sport dilettantistico ( l’esercizio fisico aumenta le endorfine che provocano benessere) è funzionale al mi­glioramento della fisicità, tanto necessaria all’antico cacciatore; oggi che il mezzo di sussistenza non è più la caccia, ma il lavoro, l’istinto non ancora mutato, spinge all’e­sercizio fisico per il piacere che ne consegue.

Vedi anche gli articoli che seguono: le-affermazioni-degli-anticaccia-vanno-esaminate una per una.