CACCIATORI DI MONTAGNA, DI BECCACCE E BECCACCINI

Il più felice non è assolutamente chi ammazza di più ne tantomeno chi trova di più e neanche chi ha i cani migliori, il più felice è semplicemente colui che trae il maggior godimento e divertimento nel trascorrere il tempo nel bosco o in montagna dietro la coda del proprio cane inseguendo le prede desiderate…….."magari in solitaria nel più alto rispetto di chi e di cosa lo circonda"

L’AGRICOLTURA CHE SOGNO di Carlo Gastaldi

Alcune premesse sono necessarie.

La prima è che non sono un agricoltore per cui non conosco bene le problematiche che deve affrontare un imprenditore agricolo preso fra le mutevoli condizioni climatiche e l’esigenza di far quadrare I conti in un settore dove il reddito è piuttosto basso rispetto al capitale investito. La seconda è che da sempre frequento le campagne padane in primis perché per lavoro vendo farmaci veterinari per specie di interesse zootecnico (gli allevatori, quindi, mi pagano lo stipendio!), poi perché essendo un appassionato di caccia passo tutti i fine settimana, in cui è permesso, a vagare con i miei cani per boschi e risaie.

Ho scritto vari articoli a soggetto venatorio, soprattutto sui cambiamenti che il mutamento delle tecniche agronomiche ha portato alla vita della selvaggina sia stanziale che migratoria: ad esempio I risi oggi vengono coltivati spesso con un uso molto minore di acqua e livellati con l’aiuto del laser. Non si creano più, stagionalmente, le condizioni favorevoli alla sosta degli uccelli migratori siano questi di interesse venatorio o meno.

Ho scritto anche di etica venatoria e della necessità di utilizzo razionale dei boschi alpini ed appenninici.

Una prima considerazione “filosofica” è che nessuno dovrebbe considerarsi “padrone” della terra che coltiva. Dovrebbe invece considerarsi “gestore” a tempo indefinito della terra e padrone di quanto produce.

Non credo sia una distinzione da poco: la terra, l’aria e l’acqua non possono avere padroni! Piuttosto siamo noi a far parte, a volte malamente, della terra. La salute della terra (acqua, aria) influenza la vita di tutti gli esseri vegetali ed animali che nel corso di milioni di anni sono nati e si sono selezionati in uno specifico territorio.

I miei pronipoti, cittadini, godranno o soffriranno come quelli degli agricoltori dei cambiamenti imposti alla terra.

Il ventesimo secolo ha visto uno sviluppo vorticoso della chimica ed un utilizzo spesso poco cosciente e razionale di sostanze in agricoltura che da una parte hanno sicuramente portato ad un incremento delle produzioni, dall’altro ad un depauperamento della ricchezza del terreno agricolo.

Anni fa un vecchio agricoltore, che aveva rotto le marcite presenti nella sua azienda, mi diceva che era stata un’operazione necessaria che comunque avrebbe portato alla perdita di ricchezze accumulate nel corso di secoli.

Con il ventunesimo secolo siamo arrivati a una maggiore conoscenza dei pregi e dei limiti della chimica e, mi sembra, ormai gli agricoltori ne fanno un uso molto più razionale.

Se da un lato la stupidità umana ha portato all’inserimento nei nostri territori di animali alloctoni come le nutrie, gli scoiattoli grigi e in modo più limitato I procioni (non riesco ancora a catalogare la diffusione degli ibis e dei cormorani) dall’altro mi sembra, soprattutto in primavera, di vedere e sentire un numero molto maggiore di rapaci diurni e notturni e nelle nostre campagne sono tornati animali “preziosi” come I Cavalieri d’Italia e le cicogne oltre a numerosi uccelli limicoli.

Ciò mi sembra un segnale di un territorio più “sano”. Sarà tuttavia da capire, per esempio, perché all’incremento delle gazzette, degli aironi e dei guardabuoi sia corrisposta una riduzione, mi sembra, delle nitticore tanto frequenti nel Pavese quando ero giovane.

In autunno, invece, se le piogge non arrivano in quantitativi sufficienti a settembre o inizio ottobre I risi sono territori quasi deserti proprio per le nuove tecniche di coltivazione: l’allagamento delle camere risicole subito dopo il taglio, fra l’altro previsto dal PSR Lombardo, può avere influssi positivi sia per la creazione di habitat di sosta adeguati agli uccelli migratori sia, pare, sulle attività agricole dell’anno seguente con minori necessità di diserbo e mantenimento della falda acquifera. Esistono a questo proposito vari studi anche italiani (Università di Torino) ma sono troppo pochi gli agricoltori che vogliono o possono effettuare tali lavori in quanto spesso non hanno a disposizione l’acqua necessaria.

Partendo da colline e montagne molti ungulati selvatici stanno arrivando o sono già arrivati anche a nord del Po. Sono stati già avvistati anche I lupi in pianura sulla riva meridionale del grande fiume! I cinghiali sono alle porte di Milano. I cinghiali di oggi probabilmente sono anch’essi frutto di stupide importazioni dai paesi del nord Europa o da incroci con maiali domestici e sono molto più grandi e prolifici del tipico cinghiale nostrano.

Per gli agricoltori padani è sicuro che la presenza di cinghiali sia un danno notevole. Un allevatore di bovine da latte del Parco del Ticino mi diceva che chi si lamenta dei danni delle nutrie lo fa perché non ha avuto il “piacere” di conoscere I cinghiali.
I benpensanti come l’onorevole Brambilla diranno che la presenza di animali selvatici è solo una ricchezza e che tali animali non devono mai essere toccati.

Sono d’accordo con lei solo sulla prima parte: come in un buon allevamento il numero di capi presenti deve essere proporzionale agli spazi ed alle possibilità alimentari!

Senza pesare troppo sulle attività agricole.

A parte i rischi che la presenza di cinghiali può portare nella nostra vita quotidiana (non dimentichiamo l’incidente di questo inverno sull’autostrada del Sole vicino a Lodi) non vanno sottovalutati I costi della presenza di tali animali per gli agricoltori!

Una sciocchezza: ho provato a considerare I costi per un allevatore dovuti alla presenza di piccioni.

Ho trovato un dato: nell’allevamento dei piccioni da carne si considera che servano 50 Kg di mangime all’anno per coppia. Il 50% è costituito da granella di mais il che vuol dire che ogni piccione che staziona in un allevamento di bovine da latte mangia, in corsia, 12,5 Kg di granella di mais. Sembra poco se non lo moltiplichiamo per le centinaia di piccioni spesso presenti: il costo poi non è solo determinato dal prezzo del prodotto ma anche dalla sottrazione della parte più ricca dal trinciato della razione delle vacche che avranno a disposizione un trinciato di mais impoverito. Non voglio entrare nel campo dei rischi sanitari dovuti al trasferimento anche passivo di agenti patogeni.

La legislazione italiana vieta la caccia dei piccioni ma vengono definiti abbattimenti organizzati nelle aziende che ne facciano richiesta. Il limite è dato dal costo della distruzione delle carcasse all’inceneritore.
Se è vero che al mondo ci sono 113 milioni di persone che soffrono di “crisi di fame acuta” la carne di piccione non potrebbe aiutare a sfamarli? O quella di nutria (che mi dicono buona come il coniglio)?

Per concludere questa prima parte del mio discorso torno al titolo: l’agricoltura che sogno.

Sogno che gli agricoltori abbiano la coscienza che ogni operazione che fanno in campagna può avere influenze positive o negative sulla salute della terra che gestiscono e che abbiano l’orgoglio e la volontà di passare ai propri figli una terra uguale o migliore di come l’hanno avuta dai loro genitori, sia come caratteristiche agronomiche sia per la vita di tutti gli esseri animali o vegetali che su di essa vivono.
Dall’altra parte noi tutti li dovremmo premiare, preferendo acquistare I prodotti di chi si comporta secondo questi principi etici.

Sono sempre convinto che i comportamenti virtuosi debbano essere premiati e non solo puniti comportamenti sbagliati.

In agricoltura non sono I produttori a definire il prezzo del loro prodotto in base al costo di produzione e ad un adeguato utile come invece succede, per esempio, nel mercato delle automobili dove il produttore definisce il prezzo di vendita in base alle caratteristiche e qualità, reali o percepite, delle sue macchine. In agricoltura sono comunque i gli industriali, o I grandi gruppi commerciali (COOP, Esselunga, Semex ecc) che definiscono I disciplinari di produzione, da vendere come vantaggio al cliente finale, ed il prezzo di acquisto del prodotto con la sola garanzia per il produttore di poter vendere. D’altra parte un allevatore che mungesse 1800 vacche in provincia di Brescia avrebbe “solo” l’1% della produzione della zona. Come può influenzare il mercato?

Un litro di latte pagato all’allevatore forse meno di 0,40€ finisce sul banco del supermercato ad una cifra spesso superiore a 1€. Quel litro di latte ha vita commerciale, diciamo, di 1 settimana ma per produrlo quanto è costato in termini sia economici sia di lavoro sia di tempo se pensiamo che una manza produce il primo litro a due anni?

Se gli agricoltori definissero disciplinari di produzione che superino quelli loro imposti e riuscissero con la pubblicità o altro a “venderli” all’utilizzatore finale che, quindi, farebbe richieste specifiche le cose, forse, potrebbero cambiare. Possono essere prese ad esempio certe cooperative come “La Granda” nel cuneese o, mi hanno detto, le carni dei bovini di razza marchigiana.

Passo al secondo punto di questo mio scritto: la coltivazione delle zone montane.
Ho letto il resoconto di un convegno intitolato “Caltiviamo l’Appennino centrale” c’erano molti spunti interessanti e venivano segnalati “problemi” che non dovrebbero nemmeno esistere!

Di sicuro l’abbandono dell’agricoltura in queste zone è un problema sia per la vita degli animali selvatici, o meglio degli animali della nostra tradizione come starne e lepri, sia per I rischi che boschi e foreste non adeguatamente lavorate possono portare.

La prima cosa che mi viene in mente è che gli alberi morti e seccati nel bosco possono bruciare molto rapidamente con un grosso aumento dei danni causati da un eventuale incendio.

In molti paesi centro europei il bosco viene considerato una ricchezza e sostenta molto personale: ci sono gli introiti dovuti alla vendita del legname che permettono il lavoro di taglio dei boschi “maturi” e la seguente piantumazione con giovani alberelli. Un qualsiasi trattato di selvicoltura descrive I tempi di vita del bosco: se non ricordo male si va dai dodici anni di un pioppeto ai 120 anni e più delle querce.
Un bosco sufficientemente esteso costituito da piante di età variabile sarà anche habitat ottimale per un maggior numero di specie animali diverse!

Tagli razionali, inoltre, creerebbero strisce frangifuoco che aiuterebbero molto a contenere I danni ed I costi di eventuali incendi, spontanei o dolosi che siano.

Non credo che esistano in Italia molti proprietari di boschi che abbiano estensioni tali da poter gestire in prima persona ed in modo economicamente valido il bosco stesso.
Penso piuttosto ad una gestione consortile della montagna dove convivano selvicoltura, frutticoltura e allevamento di bestiame bovino, caprino, ovino con pascolo dei prati montani.

Penso alla creazione di caseifici che producano prodotti tipici, di macelli che vendano carni DOC di animali alimentati con essenze pregiate da destinare ai migliori ristoranti e a veri appassionati. Penso alla creazione di laboratori per la lavorazione dei funghi e dei frutti di bosco, alla coltivazione del tartufo, vanto di tante zone italiane.

Non da ultimo penso anche alla creazione di riserve di caccia consortili dove, rispettati I diritti dei residenti, si possano vendere I diritti di abbattimento della selvaggina, soprattutto degli ungulati.

Sono cose che esistono in molte parti d’Europa, soprattutto nelle zone che facevano parte dell’Impero Austro-Ungarico, dove, spesso, il cacciatore compra il diritto di abbattimento ma non la carne dell’animale abbattuto che verrà commercializzata a parte. Il diritto di abbattimento di un cervo con trofeo di circa 10 Kg può costare più di 5000€! Se aggiungiamo solo 100 Kg di carne a 4€/Kg direi che sono bei soldi.
Un esempio: ho “comprato” da un amico cacciatore di caprioli una carcassa intera per gustarne le carni prelibate e gli ho dato 80€. Soldi spesi benissimo!

A tutto quanto già detto devono essere aggiunti gli introiti per le spese che il cacciatore sosterrà per la permanenza in zona: pernottamento, pasti, acquisti di prodotti tipici ecc.

Come già scritto sopra, tutto questo potrebbe permettere un corretto bilanciamento degli animali presenti per specie e classi d’età e di sesso in relazione alle possibilità alimentari del territorio della riserva: ne trarrebbero vantaggio la fauna selvatica, il bosco e gli abitanti della zona!

Come in ogni azienda agricola ben gestita anche in questi territori “consortili” verrebbero utilizzate in modo corretto le risorse naturali ben attenti a non eccedere per non influenzare negativamente la redditività nei prossimi decenni.
Sono convinto che una simile “politica” di gestione delle zone montane potrebbe portare anche a un notevole incremento di “veri” posti di lavoro ed alla creazione di ricchezza, se non immediata e facilmente percepibile, almeno a lungo termine anche in termini di miglioramento della salute del nostro paese.

P. S. Non so perché, non avendo letto informazioni in proposito ma sono anche convinto che un bosco in crescita possa essere anche un maggior produttore di ossigeno rispetto a un bosco vecchio.

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2 Comments

  1. lucio Scaramuzza

    sono d’accordo ,ma il punto difficile da risolvere in Italia è che la selvaggina e’ ancora ” res comunitatis ” e questo blocca tutto. IN TUTTI i paesi Europei a vario titolo non si può entrare in un terreno se non si ha l’autorizzazione del proprietario e quindi di fatto per andare a caccia occorre munirsi di questo permesso…….. questo crea due grandi vantaggi uno evidente per i proprietari dei terreni e l’altro anche se non sembra , per i cacciatori . Gruppi finalmente omogenei decideranno di mettersi insieme e gestire quel territorio in modo univoco, se tutti amano gli ungulati organizzeranno il territorio in funzione degli ungulati viceversa se amano starne ,pernici rosse, organizzeranno il territorio in funzione di questi animali.Secondo me l’unità d’intentanti porta inevitabilmente a creare gruppi omogenei di cacciatori tutti con le stesse finalità e questo ,secondo me sta alla base del successo.. In un momento come questo dove i terreni di montagna sono praticamente abbandonati e quindi disponibili ad essere “coltivati ” in vario modo in funzione della selvaggina che vogliamo produrre , penso che sarebbe una grande occasione da non lasciarsi sfuggire. Come lei avrà potuto capire sono un montanaro amo la montagna dove ho cacciato fin da bambino…e ricordo quei giorni con grande nostalgia ,ma secondo me oggi esiste più in questi posti che in collina e pianura, dove l’agricoltura convenzionale esiste ancora in modo importante , la reale possibilità di far rivivere la caccia a condizione che sia una fonte di reddito anche per i montanari.

    • Carlo Gastaldi

      La ringrazio per il commento. Non sono solo d’accordo con lei sulla necessità/volontà di gestire il territorio in funzione di un “gruppo” di animali: perché la montagna sia “sana” devono coesistere la piccola selvaggina e gli ungulati. Il bosco giovane, di media età e Maturo,il pascolo, il pascolo ed il cespugliato. Tutti gli ambienti che la caratterizzavano associati ad un progetto economico di vita che non si basi soprattutto su piste da sci e turismo (che, ben gestiti non guastano)
      Carlo

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