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Mario Di Pinto a caccia

La grande espressività del lavoro dello Spinone ci consente di interpretare chiaramente ogni suo atteggiamento in caccia.

Tutte le razze da ferma hanno comportamenti propri che, se fossero tutti eguali, farebbero venir meno la ragion d’essere delle varie razze. E l’insieme di questi comportamenti si chiama “stile di razza”, trasmesso da un codice genetico di generazione in generazione, che gli allevatori devono conservare e fissare mediante oculata selezione. Questo è almeno ciò che dovrebbe succedere ma che purtroppo non sempre accade, forse per inesperienza di chi alleva o forse perché alcuni si preoccupano solo di far nascere cuccioli e venderli. Però non ne vale la pena, perché coi costi odierni ad allevar cani – e per quel che mi riguarda, ad allevar Spinoni – non ci si arricchisce di certo. Per sapere come deve essere uno Spinone non basta abbeverarsi ai fiumi di inchiostro che in materia sono stati versati. Conta molto anche l’esperienza che nasce dal suo utilizzo pratico a caccia. Anzi, in questo caso, “val più la pratica che la grammatica”. E la pratica venatoria ci consente di leggere lo Spinone come un libro aperto, in tutte le sue manifestazioni che lo caratterizzano rispetto alle altre razze più o meno affini.

Incominciamo dall’avidità, che per lui non si esprime con la velocità, ma con l’irriducibile impegno in tutti i terreni, che non vien mai meno, tanto che per tenergli dietro il cacciatore deve possedere gambe e polmoni temprati ad ore ed ore di fatica. In caso contrario è meglio dedicare il tempo libero alla briscola in osteria. E malgrado l’indomito impegno, non son d’accordo con l’amico che ha definito lo Spinone “una macchina da guerra”, sia perché in lui l’avidità nasce dal cuore palpitante  (e non da freddi ingranaggi) sia perché con lui la guerra non c’entra per niente (ed a testimoniarlo basta il suo sguardo). Perciò anche se capisco il significato che a quell’espressione si è voluto dare, permettetemi di dissentire non nel senso, ma nello spirito e nella forma.20992965_497746717272386_2862112358864709107_n Tutti i cani da ferma devono essere collegati, ma lo Spinone lo è con la mente e col cuore: durante la caccia non ci perde mai di vista e nel bosco lo dimostra sbirciando fra i rami con eloquenti sguardi per dirci che sta cacciando per noi. Allorché avverte una promettente emanazione, diventa improvvisamente prudente con atteggiamenti quasi felini (non a caso si dice che “gattona”) e con inequivocabile espressività ci induce a condividere la sua spasmodica attenzione. Ed è un momento di grande tipicità che lo distingue nettamente dal Bracco italiano, la cui filata è sempre eretta. La mimica che prelude la ferma è molto anticipata per darci agevolmente il tempo di appostarci nel modo più favorevole al tiro. La sua espressività di ferma è modulata a seconda del tipo di selvatico che ha di fronte, ed allorché la “comunicazione d’amorosi sensi” (per dirla con Ugo Foscolo) che lo unisce a voi avrà instaurato il dialogo profondo di cui egli è capace, saprà dire se sta fermando una lepre o un fagiano, se è un beccaccino lontano o un confidente frullino, una quaglia o un volo di nobili starne.

E sarà il suo atteggiamento a dirlo, perché voi lo leggete appunto come un libro aperto.

Ecco perché quando mi capita di vedere certi soggetti, magari osannati da un pubblico di sedicenti conoscitori, che svolgono una cerca frenetica di lacet perfettamente geometrici, senza un accertamento, senza un prudente rallentamento, senza un’emozionante risalita, con ferme spesso scattate, con freddi e meccanici comportamenti da automa…. ecco anche loro sono un libro aperto, in cui sulla prima pagina a caratteri cubitali c’è scritto “Io non sono uno Spinone”.