Riporto di seguito uno scritto dell’avvocato Aldo Saba in ricordo di Vittorio Stolfi, che ha il pregio di ben raccontare comportamenti curiosi adottati dagli animali selvatici, e contribuisce ad arricchire le nostre conoscenze.

Piccoletto di statura, marroncino ed arricciato come il mozzicone di toscano che teneva fisso in bocca, Vittorio amava i cani e la moglie, non si sa in quale ordine; cronologicamente i cani, questo è certo, poiché ne aveva confidenza fin da piccolo. Bravissima persona, come si dice di colui del quale si sa poco o niente, stante la riservatezza; sempre pronto al sorriso. Se tale può definirsi il ghigno nel quale fra lo spuntar del sigaro e delle sopracciglia, poteva individuarsi il chiarore della sua bonomia. Avevo occasione d’incontrarlo raramente, ma sempre con gran piacere, soprattutto perché con lui si parlava di cani, che è un gran passo avanti rispetto alle donne e al calcio. Ed una volta, sempre per rimaner nell’argomento, mi raccontò un fatto che gli era capitato e del quale serbava viva la memoria vista la sua stranezza. Era ospite di un contadino col quale si intendeva benissimo per il suo animo privo di schematismi sociali, per lui che addirittura serbava pudore d’essere avvocato; pane cotto al forno, vino dell’ultima vendemmia, insaccati e prosciutti del maiale del quale si ricordavano ancora le prodezze, racconti e memorie ricollegate alla terra ed alle sue cure; tutto li affratellava. E fu grazie a questa confidenza che il contadino si permise di chiedergli un favore.
Gli spiegò che, puntualmente col sorgere del sole, ogni mattina la volpe passava nei pressi e, se possibile, faceva spesa nel pollaio; lui aveva provveduto a rinforzare la rete, a cementarne la fondazione ma l’animale trovava sempre il verso di cavarsela e di fare danno. Se l’amico si fosse messo sul ciliegio, alla posta, sarebbe stato facile per lui, sia pure se cacciatore pentito, far fuori l’animale con una schioppettata. Assai malvolentieri il buonuomo, di pasta tenera ancorché se avvocato, aveva aderito alla richiesta, dopo aver inutilmente consigliato il contadino a rifare ex novo il pollaio, secondo regola che dio comanda.
Alla fine, lo si è detto, si era rassegnato e di buon mattino si era già incastrato trai rami alti del ciliegio, col fucile in mano ed il sigarino stretto fra i denti. Puntuale coi primi albori che Il sole guadagnava al buio della notte, eccoti bel bella la volpe che arriva per il sentiero, ignara dei progetti ai suoi danni. Ammirato dall’incedere dell’animale, morbido di sensualità ed eleganza, Vittorio ne fu inizialmente distratto fin quando l’animale, giunto a tiro, ebbe ad incuriosirlo per una sua stranezza: portava in bocca, con cautela, un fagottino di qualcosa, indecifrabile alla vista dall’albero.

Poco oltre c’era un ruscello e l’animale vi giunse sempre col fagotto in bocca e Vittorio che masticava il sigaro perplesso più che mai. Lentamente, assai lentamente, la volpe entrò nell’acqua, pian piano inoltrandosi verso la sua parte più profonda, con la testa sporgente verso l’alto, quasi a cautela di quel benedetto fagotto; fin quando, immersa tutta, con la sola punta del naso fuori della corrente, lasciò alla cura delle onde il fagotto e, con rapida retromarcia, sortì all’asciutto per poi sgrullarsi per espellere l’acqua dal pelo, come un cane. Oramai Vittorio era completamente irretito, dimentico del suo compito e curioso come una scimmia; scese di corsa dall’albero, incurante della fuga dell’animale, e corse all’acqua per non perdere di vista il benedetto fagotto. Bagnato fino al bellico, senza neanche sentire il morso dell’acqua fredda, riuscì a non scivolare sui sassi melmosi del fondo fin quando, sporgendosi, riuscì ad agguantare il fagotto ed a recuperare la riva per meglio esaminare il reperto.

Con sua meraviglia vide uno stretto intessuto d’aghi di pino che, dipanato, pareva brulicare di piccoli esserini neri; tempo d’intuire l’amara verità e già si era tutto impulciato, il corpo percorso a tempo di record da animaletti famelici. Solamente dopo aver riacquistato padronanza di sé, grazie alla doccia e al cambio d’abiti, riuscì a decifrare l’arcano.

La volpe, tale di nome e tale di fatto, aveva escogitato un suo sistema del tutto ecologico per liberarsi dai parassiti; dopo aver messo insieme un fagotto di aghi di conifera, con quello in bocca si immergeva nell’acqua corrente del ruscello e, via via inoltrandosi, costringeva le pulci a ritrarsi nella parte del corpo non ancora sommersa, fin quando esse erano costrette a riunirsi in quella specie di scialuppa di salvataggio che teneva in bocca, fuori dell’acqua. Dopo bastava abbandonarla alla corrente, con tutto il suo equipaggio, ciascuno al suo. destino; le pulci in cerca di un approdo e la volpe ai suoi mestieri usuali.