CACCIATORI DI MONTAGNA, DI BECCACCE E BECCACCINI

Il più felice non è assolutamente chi ammazza di più ne tantomeno chi trova di più e neanche chi ha i cani migliori, il più felice è semplicemente colui che trae il maggior godimento e divertimento nel trascorrere il tempo nel bosco o in montagna dietro la coda del proprio cane inseguendo le prede desiderate…….."magari in solitaria nel più alto rispetto di chi e di cosa lo circonda"

PERCHE’ LA CACCIA (la mia caccia)

Stralci dal Libro “Io me i miei cani” di Silvio Spanò (2009)

La caccia in sé non significa nulla se non è legata alla vita e ai suoi diversi momenti. Può diventare invece un collante che lega insieme, in un magnifico, unico momento, persone, animali, cose, località, emozioni che sarebbero altrimenti singoli momenti, riferibili solo a questa o quelle prede. In pratica se la caccia consistesse solo nel prendere un determinato animale, sarebbe una cosa triste (o trista), così come è assai triste l’ammissione di Hemingway che scrivere è come andare a caccia e si è necessitati a farlo finchè ci sono cose da scrivere o animali da ammazzare. Rigetto  l’affermazione.

La caccia fa parte del mondo delle illusioni, che ci aiutano a vivere. C’è chi scrisse:”La caccia è sempre domani!”. Questa è una definizione. E’ l’attesa e la speranza, è l’attività pratica, ma soprattutto il ricordo. Ma anche per chi, come me, caccia prevalentemente da solo con i propri cani, nella mente si accavallano tante Persone, splendide Persone, con le quali abbiamo condiviso momenti e situazioni semplici, banali forse, ma sempre irripetibili. E i cani, nominati così come oggetti, diventano personaggi della nostra vita, fuori e dentro la stagione di caccia, sul campo e intorno alla tavola di famiglia.

La caccia è anche perseguire l’uccisione di una preda, in una sorta di rito sacrificale che si perde nella notte dei tempi, ma decisivo per la sopravvivenza della nostra specie. Tant’è vero che le società di cacciatori (intese sia come primitive, ma anche moderne ed evolute) conservano ancor oggi riti di omaggio e rispetto, se non addirittura di scuse, verso la vita che hanno soppresso.

La piramide trofica è una realtà naturale di interdipendenza: semplificando al massimo, la base, larga, è costituita dagli erbivori che sono più numerosi perché rappresentano il cibo per i carnivori sempre più specializzati.

D’altra parte l’etologo Desmond Morris (“La scimmia nuda”) sottolineò chiaramente come l’azione di caccia non sia strettamente correlata con il bisogno immediato di cibo! Cani e gatti domestici, con la pancia ben piena degli alimenti offerti dai loro proprietari, cacciano molto volentieri, non avendone in realtà assolutamente perduto il “piacere”. Le necessità primarie per la conservazione della specie, infatti, come il nutrirsi ed il riprodursi, sono legate a profondi piaceri, fine a se stessi, ma indispensabile spinta verso quei comportamenti di sopravvivenza.  Pertanto il cane, il gatto e l’uomo, nonché gli altri carnivori selvatici ricevono già una soddisfacente remunerazione dall’attività stessa di caccia, al di fuori del risultato contingente.

Ma la caccia moderna, su base ludica, come divertimento, non sarebbe ammissibile!

Se la caccia si identificasse con l’uccisione di un animale, fine a se stessa, e basta…credo che dovrebbe esser proibita.

Ma se la caccia, come per moltissimi è, riassume l’insieme imprescindibile di un’infinità di persone, cose, sensazioni e momenti. Se diventa la Vita. Se si inserisce in un discorso di gestione faunistica biologicamente accettabile, anzi virtuosamente utile alla conservazione…Allora cambia aspetto…

Ma stiamo molto attenti, perché a volte il mero aspetto del bel tiro, magari fortuito, ad una preda viva in movimento, potrebbe diventare prioritario nella grande illusione-ricordo- sogno della caccia, spingendola verso un baratro pieno di cadaveri, che lasciano solo puzza di morte. Il confine è sottile, e la tecnologia moderna offre diabolicamente il destro a facilitare la predazione e ad amplificare la ridondanza del numero di prede da confrontare con altri.

Io e Ala 1998

 Se la caccia diventa agonismo, perde se stessa.

 I nostri vecchi scrivevano: “Ho preso la beccaccia”. Oggi la domanda è: ”Quante beccacce hai preso?”. Se le nostre prede diventano numeri da sbattere in faccia, solo da confrontare con i concorrenti, gli orli di quel baratro diventano ancora più friabili e insicuri.

In questo quadro la caccia all’estero assume un aspetto equivoco. Ovvero un conto essere socio di unità di gestione a due passi dal confine, che è come essere a casa (quanti cacciatori che abitano in Liguria occidentale o in Friuli son sempre andati quasi sclusivamente a caccia nell’adiacente Francia sud-orientale o in Slovenia/Crozia!). Un conto fare vere e proprie spedizioni, organizzate da operatori turistici che promettono ricchi carnieri (che poi ti senti in dovere di realizzare!), in zone i concentrazione di specie migratorie già sufficientemente perseguitate su gran parte del loro areale europeo: è il caso della beccaccia. Diverso è il caso della stanziale che ciascun Paese si gestisce secondo il proprio criterio e le proprie popolazioni animali.

Non è detto che si debbano vietare le trasferte venatorie, che, sul globale, spesso incidono assai meno che i prelievi di Paesi più”civilizzati” dove la concentrazione dei cacciatori locali è elevata e l’estensione degli habitat idonei spesso ridotta. Ho fatto il conto che le beccacce uccise globalmente ogni anno in Crimea equivalgono a quelle prelevate nella sola Liguria (intorno a 10.000 /anno).

Occorre invece regolamentare il numero dei prelievi in modo che ogni cacciatore abbia un tetto annuo che non può superare, cumulando le beccacce prese in casa e all’estero. Parallelamente si potrebbe prevedere un pacchetto di giornate, spendibili dove si vuole e quando si vuole, finite le quali si sta a casa! Mentre la prima soluzione potrà essere attuata quando sarà nota la quantità di prelievo tollerabile, basata su dati attendibili (che oggi non abbiamo), la seconda – caldeggiata dall’ex Presidente del Club della Beccaccia Spagnolo, Pep Ullastre in sede FANBPO e sempre lasciata cadere – potrebbe costituire una serie base di discussione di efficacia prudenziale.

In particolare per me la caccia non ha costituito – come per molti – una valida (in certi casi necessaria) alternativa al lavoro, quasi una valvola di sfogo o l’esigenza di svolgere un’attività (la caccia appunto) in cui l’iniziativa, l’imprevedibilità, l’ambiente in cui ci si muove,  personalizzabile compensi lo stress (la disumanità, diciamo pure) di un lavoro ripetitivo, per niente idoneo all’”Uomo”. Il mio lavoro infatti sovente si è sovrapposto positivamente,  sia come argomenti che come ambiente , all’attività venatoria di modo che a volte non capivo se stavo lavorando o stavo divertendomi! E’  il massimo.

In realtà la caccia non è definibile un “divertimento” nell’accezione comune del termine. Sarebbe orribile divertirsi ad uccidere…e la caccia prevede “anche” dare la morte, ma come atto finale e non sempre necessario e “piacevole”… Tale termine (divertimento) potrebbe forse risultare accettabile solo se usato etimologicamente, da “de-vertere”= cambiar strada, distrarre  insomma da altra attività,  magari necessaria (lavoro), ma psicologicamente poco remunerativa.  In definitiva io non ho mai avuto bisogno di andare a caccia per divertirmi, cioè per “ritrovare una vita degna di essere vissuta”, vista la affinità con la mia occupazione di base.

Va sottolineato che, negli anni, sia per la normativa rinnovata, sia per scelte personali (soprattutto dopo il 1965, quando decisi di non sparare più ad uccelli più piccoli del tordo), le specie legalmente cacciabili (cacciate, da me almeno) sono crollate da circa un’ottantina ad una decina.

Ciò non toglie che, a ripensarci, una bella strage l’abbiamo fatta ed è incredibile come, nonostante tutto (pesanti fattori limitanti naturali compresi), ci siano ancora animali cacciabili in discreto numero, soprattutto concentrati (fattore pertanto illusorio) nelle aree ancora idonee tendenzialmente in diminuzione.

Quindi non credo sia da guardarmi storto, come fanno molti, quando sostengo che la messa in pratica di tutti gli strumenti prudenziali per diminuire la mortalità “da uomo” sia nostro sacrosanto dovere.

Se ripercorrendo un sentiero, chissà quante volte conosciuto e legato ad amici ed emozioni, su un sottofondo morbido di malinconia nostalgica, nei colori magici dell’autunno, e il nostro cane resta bloccato in ferma scultorea su un’insperata beccaccia (sempre nuova o sempre la stessa?), se ci avviciniamo col cuore in tumulto, come la prima volta, se riusciamo a pensare e, magari, per una volta abbassare il fucile evitando di sparare, godendo solo dell’incontro del nostro sguardo con l’occhio profondo e perplesso della beccaccia. Forse ci potremo ancora salvare!

L’evoluzione del “panorama” venatorio

Nell’ultimo cinquantennio ho avuto la possibilità di “toccare con mano” i cambiamenti delle normative e dei concetti gestionali che esse sottendono (poi è da verificare se e fino a che punto applicati correttamente), nonché l’incredibilmente rapida variazione dell’ambiente e della sua fauna venabile. La normativa è stata due volte modificata (nel 1977 e nel 1992) a partire dal Testo Unico del 1939, con notevole restrizioni su tempi e specie e, finalmente, sulla eccessiva mobilità del cacciatore. Il legame col territorio comporta una responsabilizzazione, non foss’altro per far durare più a lungo le possibilità di incontro; purtroppo si è scontrato con un’infinità di remore che hanno, se non vanificato, impoverito notevolmente la portata di quest’innovazione, per l’Italia certamente rivoluzionaria, sostenuta con vigore e successo dall’allora Presidente Federcaccia Giacomo Rosini.  Laddove seriamente (purtroppo raramente) applicata, nella lettera e nello spirito, ha certamente migliorato la gestione faunistica.

 L’entrata in vigore della Direttiva “Uccelli”della CEE ha comunque ampliamente contribuito alla conservazione di molte specie, in particolar modo con il divieto di prelievi di migratori in periodo riproduttivo, ivi compresa la risalita primaverile verso i quartieri di nidificazione.

L’evoluzione della normativa è avvenuta in un momento di profonde modifiche ambientali (abbandono della montagna, espansione della vegetazione arborea e arbustiva, contrazione dei coltivi e delle aree aperte) e faunistiche, con il boom degli Ungulati e la possibilità di accedere ad una nuova forma di caccia, a fronte di una contrazione della piccola fauna stanziale in molti habitat (non più idonei ovvero troppo caricati da un’agricoltura industrializzata). Tutto ciò, insieme ad una campagna capillare organizzata dalle associazioni ambientaliste (e animaliste in particolare) ha comportato una contrazione netta del numero dei cacciatori, quasi dimezzato rispetto agli anni ’70, allora artificialmente gonfiato da un’assurda campagna “promozionale”.

In definitiva la produzione di biomassa proteica è certamente di molto aumentata, con la soddisfazione di solo parte dei fruitori e ancora in difficoltà nell’ottica di un razionale sfruttamento di tante proteine “selvatiche” pregiate, ricchezza potenziale per le popolazioni locali, non sfruttabili economicamente in mancanza di adeguate normative. E le prospettive sono positive solo per chi, nel frattempo culturalmente maturato, ha finalmente compreso entro quali limiti l’attività venatoria può essere accettabile e quali siano i concetti biologicamente corretti entro cui svolgerla.

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1 Comment

  1. solo se si tenterà seriamente la reintroduzione della stanziale(vedi starna o pernice rossa soprattutto) avremo un vero alleggerimento della pressione venatoria sulla beccaccia come d’altronde lo era negli anni 60/70 dove pochi andavano a beccacce. Quei pochi erano considerati gente strana che anziché rivolgersi alle starne o alle pernici rosse ,s’infilavano nei boschi umidi bagnati ….. Oggi con l’abbandono quasi totale dei terreni sul nostro Appennino (cosa questa che fu il colpo di grazia all’estinzione della starna) paradossalmente, grazie al fatto che molte migliaia, per non dire milioni di ettari sul nostro Appennino, sono praticamente abbandonati, penso che sarebbe possibile immaginare un’agricoltura assolutamente non convenzionale, rivolta alla produzione di questo genere di animali ovviamente “allevati” allo stato naturale .
    Si tratterebbe di coltivare i terreni secondo i criteri di un agricoltura rigidamente biologica ,dove la chimica e la meccanica devono essere usate con grandissima attenzione. Ripulire dal bosco ,ripristinare i pascoli sfalciare i terreni ,naturalmente con accordi precisi e forse mai fatti prima con gli agricoltori rimasti e con i proprietari dei terreni ……… A CONDIZIONE CHE LA SELVAGGINA NON SIA “patrimonio indisponibile dello stato” ma di proprietà esattamente come le patate ,il frumento ,il granturco……. Sono convinto che cambierebbe tutto …..

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