FOTO_47sLa giornata è caratterizzata da scrosci violenti di acqua tiepida, intramezzati da squarci di sole che giocano contrasti di luci improvvise ed ombre lunghe fino all’orizzonte. Non proprio ideale, come giornata da beccaccia; tanto più che il bosco di giovani quercioli irramati, alti non più di tre metri, aggravano l’impaccio dell’impermeabile e del cappellaccio legato in gola. Rarissime le piazzole, ed il sottobosco è vicino allo zero. Molto meglio la mulattiera, anche se allagata e con buche così profonde da rischiare il rabbocco degli stivali. Cammino con gli occhi a vedere dove metto i piedi, mentre cuore e cervello sono nelle orecchie a godersi il campano che trasmette in tempo reale spazi, ragioni, azioni ed emozioni di una cerca ampia, determinata e dal giusto intrigo.
Mentre spero che il cane fermi non lontano dal sentiero, Sbranco si concretizza in ferma cinquanta metri dentro e, in ginocchio, ne vedo l’espressione e la direzione parallela. Lo sopravanzo di cinquanta metri lungo il sentiero ed entro, con fatica, tra i rami giovani e fitti proteggendomi la faccia coi gomiti; sono sulla verticale del cane, lo avvicino frontalmente sperando di tagliare la strada alla beccaccia. Mi fermo ai dieci metri perché bastano e perché mi sembra un buon piazzamento; buono per sinistra, rifletto, ma meno buono a destra. Per sinistra la beccaccia è costretta ad incolonnarsi, per destra può volare più bassa e coperta: più probabile questa soluzione, anche per via del sole. Decido la rischiosa correzione di piazzamento e, con la doppietta stretta tra le mani in verticale sul petto, mi faccio più sottile, trattengo il respiro e guadagno, mezzo metro alla volta, una posizione più favorevole.

Ora sono tranquillo, respiro profondo e regolare ed azzardo che il problema ora è suo, della beccaccia.

Sbranco mi lancia un’occhiata ed il dubbio di essere fregato dura un attimo; guida piano, lungo come una pantera, mi passa cinque metri a sinistra (dove prima avevo i piedi) e continua, continua per trenta metri per rifermare duro in fondo.

Decido che raggiungerlo da tergo, in quell’ambiente, con quella beccaccia è inutile e mi dirigo affannato verso la mulattiera; la imbocco a destra, procedo fino a superare di altri cinquanta metri il cane e rientro per ripetere l’operazione di accerchiamento.

Raggiunta la giusta altezza, mi incammino specchiandomi col cane e, abbandonando la prudenza, accelero confidando di costringere la pedona a volare. Mi fermo cinque metri di fronte al cane e, questa volta, lo guardo io negli occhi. Lui non se ne cura e, vistomi fermo, inizia a guidare impietoso più a destra, prudente ma deciso e rifema dentro, molto in fondo. Il gioco della mulattiera non è più possibile e scelgo il faticoso affiancamento a distanza.

Non sono ancora arrivato e ricomincia a guidare; non aspetto che si fermi, seguo guardandolo sottecchi, pronto ad una eventuale stoccata e continuo a camminare anche dopo che lui ha rifermato più avanti a destra.

Il fiato si fa’ grosso, il rumore dei rami è esagerato e mi sembra…. Mi fermo, trattengo il respiro giusto in tempo per intravedere cento metri avanti l’anima della beccaccia virare velocissima a sinistra.

Mannagia della sbrambellata, della mastella, della sbudellata!

Al rallentatore metto la doppietta in spalla, allungo le braccia lungo i fianchi, chiudo gli occhi ed alzo la faccia verso il cielo per proteggermi il collo dalla pioggia e sentire le gocce ridiscendere lungo i gomiti, sin fuori nelle punte delle dita. Inutile recriminare, meglio riguadagnare la mulattiera; lo faccio a fatica mentre il campano di Sbranco si esibisce in un intermezzo da cavalleria rusticana. Adesso sono fermo io e rifletto. Più avanti il sentiero sembra girare a destra e la beccaccia, incocciatolo, dovrebbe averlo seguito e poi utilizzato per il sette. Vero o no mi devo avviare.

Ai duecento metri la strada curva a destra e, girato l’angolo, vedo Sbranco che rientra utilizzandone il bordo; lui continua verso me come se anch’egli avesse voglia di vedermi un attimo.

Alza la testa come per guardarmi meglio, salta il fossetto e ferma in volo, cadendo a terra in mezza rovesciata. Lo avvicino piano ed al pulito fino a due metri: è mostruosamente contorto, spiattellato nel fango con gli occhi infuocati.

Se ha il vento potrebbe averla ad un metro, ma dovrei vederla: scruto il terreno decimetro per decimetro invano.

Se non ha il vento può averla dietro e chissà dove.

In quelle condizioni non ho voglia di pensare e decido di non mollare la posizione. Passano attimi lunghi un secolo e sento Mauro chiamare lontanissimo; Sbranco cerca il filo della matassa, gira lentamente la testa, si fa’ coraggio e, sicuro, inizia a guidare in direzione contraria; entra dentro il bosco, perpendicolo alla strada, si allontana in filata e ferma lontano. Entrare è assolutamente inutile!

Ricordo in un attimo che il sentiero in fondo ritorna a viaggiare indietro e parallelo; raggiungo il tornante, faccio il punto del bosco opposto all’ingresso del cane e mi affretto a raggiungerlo.

Il campano è muto e mi infastidisce lo splash degli stivali nella malta, lo sfreghìo dei gambali fra loro, il dondolìo del fischietto che in corsa mi sbatacchia nelle spalle; mi scopro a correre ed il fastidio quasi aumenta: ancora trenta metri ed è fatta.

Mannaggia della sbrambellata, della mastella, della sbudellata!

La beccaccia, attraversato il bosco e raggiunto il bordo a piedi, volteggiava già velocissima ed incazzata in fondo alla strada, verso l’orizzonte. Scarico in un “hooop” tutto il fiato dei polmoni e non solo. Proseguo verso il punto in cui si era involata appena in tempo per vedere Sbranco arrivare in punta di piedi, in guidata ed in evidente atteggiamento di chi non l’ha vista partire. Vagli a spiegare la ragione per cui lo guinzagli, la ragione per cui imprechi e la ragione per cui molli!

– Non ce l’ho con te, Sbranchetto! Sai?

Forse le beccacce non esistono: quelle facili non le trovi mai, quelle da corsa sono degli spiriti.