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Ci aspetta un futuro di globalizzazione faunistica, un mondo popolato da poche specie animali con grandi numeri che mette a rischio la meravigliosa varietà di vita osservata fino ad oggi

Il 2020 rappresenta un traguardo ambizioso per tutti i governi del mondo, che , nel corso della conferenza mondiale sull’ambiente, si sono solennemente impegnati ad arrestare il declino della biodiversità e a fare in modo che questo nostro pianeta non diventi sempre più povero di piante e di animali, organismi, ben inteso, dei quali l’uomo non ha ancora imparato a fare a meno. Ma tutto ciò rischia di non avverarsi, anzi la situazione è drammaticamente precipitata e si calcola che il ritmo con cui le specie si stanno estinguendo è oggi da cento a mille volte più rapido di quanto dovrebbe essere in condizioni naturali.

La lista dei candidati all’estinzione include nomi illustri, come la tigre, di cui restano meno di quattromila esemplari, il panda gigante, il rinoceronte nero fra gli animali, le grandi sequoie americane fra le piante. Ma in realtà sono tantissimi gli organismi che in cinquant’anni scompariranno e si stima che le funzioni ecologiche siano state compromesse almeno per il sessanta per cento. E allora come spiegarsi il caso dell’Italia che in molte regioni sta vivendo una seconda giovinezza, con un incremento della presenza degli animali mai verificato negli ultimi cento anni?

Ce lo spiega il lupo, uno degli animali considerati in pericolo nel territorio europeo, ma che da noi pare vada alla grande, tanto da aver colonizzato negli ultimi anni anche la catena alpina. Il primo lupo che negli anni Ottanta ha messo piede nelle Alpi, per la precisione nell’estrema porzione occidentale della catena, ha fatto scalpore suscitando una generale curiosità e nessuna preoccupazione, il secondo qualche apprensione, il terzo ha scatenato la reazione.

 Così i francesi, e poi gli svizzeri, hanno deciso che di lupi, nelle loro montagne, non ce ne devono essere: se li tenessero pure gli italiani, visto che i lupi alpini hanno un pedigree abruzzese, come è testimoniato dalle analisi del DNA. Del resto gli italiani, prova ne è l’antico mestiere dei lupari, i bounty killers di lupi che hanno operato in Appennino fino agli anni Sessanta, da sempre convivono con i lupi e li tollerano come si tollerano la grandine, la nebbia, la siccità. Così i lupi dell’Abruzzo, che, dopo quasi due secoli di assenza, sono riusciti ad arrivare fino alle Alpi francesi passando sotto i viadotti e sopra le gallerie dell’autostrada Genova–Ventimiglia, sono stati accolti da un fuoco di sbarramento e sono stati costretti a ripiegare in Italia. Questi predatori, che solo sulle Alpi occidentali italiane sono almeno centocinquanta e stanno insediandosi anche in provincia di Bolzano, comunque sono solo la punta dell’iceberg di un impressionante fenomeno di recupero della grande fauna che sta interessando tutta la catena montuosa e che sta facendo vivere momenti di gloria a quella, che gli studiosi definiscono l’ecoregione alpina.

Dalla Francia alla Slovenia, passando per Italia, Svizzera e Austria, in queste maestose montagne non ci sono mai stati tanti animali come in questi anni. Cervi, caprioli, cinghiali scendono addirittura in pianura e bussano alla porta delle città padane.

Gli avvoltoi degli agnelli veleggiano con i loro tre metri di apertura alare dalle Marittime allo Stelvio, dopo quasi un secolo di assenza. L’ultimo di questi rapaci era stato ucciso nel 1913 in Val di Rhemes e c’è stato bisogno di trent’anni di attività di un consorzio di zoo e associazioni austriache, tedesche e svizzere per riportarlo nella sua antica patria.

Ma una volta aperte le voliere, i grandi uccelli non si sono fatti pregare per riprendere possesso del loro regno di rocce e ghiacciai, tornando a fare quello che hanno sempre fatto: smembrare le carcasse degli animali travolti dalle valanghe.

Gli orsi bruni, prelevati dalle foreste della Slovenia e liberati nel parco trentino dell’Adamello, presi da una smania podistica, hanno raggiunto l’Austria e la Germania e lì sono stati abbattuti perché ritenuti dannosi e pericolosi. Dei cervi non si tiene più neanche il conto: solo quaranta anni fa erano un’esclusiva tutta straniera, oggi rappresentano una minaccia per boschi e colture in Trentino, in Lombardia e in Piemonte , tanto che il parco nazionale dello Stelvio ha deciso di eliminare una quota consistente della popolazione per ripristinare l’equilibrio ecologico compromesso dal proliferare di questi grandi animali erbivori. Se le Alpi vivono questa festa zoologica, allora perché l’allarme biodiversità è così forte nell’anno? Perchè non tutti gli esseri viventi sono uguali, anzi, la biodiversità è proprio questo: il trionfo della differenza. Da una parte aumenta la grande fauna, cervi, cinghiali, lupi, avvoltoi, linci che entrano in conflitto con gli uomini, perché la sola cosa che non può aumentare è lo spazio, dall’altra scompare a ritmo crescente una moltitudine di piante e animali della cui esistenza pochi o pochissimi si rendono conto. Chi si preoccupa della scomparsa della pernice bianca o del piviere tortolino, della salamandra nera o del proteo?

 Fanno meno effetto dell’orso, del lupo, del camoscio, dello stambecco e dell’avvoltoio che invece vanno alla grande. La differenza sostanziale è che lupo, orso, cervo e avvoltoi per quanto animali grandi e bisognosi di spazio hanno esigenze meno specifiche della salamandra,del proteo e del piviere tortolino: i grandi animali sono adattabili e possono vivere in tanti luoghi, profittando addirittura del bestiame domestico e delle colture dell’uomo. Al contrario salamandre, ululoni ( un piccolo rospo),sassifraghe, pernici bianche, protei, rosalie alpine (non è una malattia, ma un bellissimo coleottero ceruleo) vivono in spazi molti più angusti, definiti nicchie ecologiche: il proteo, ad esempio, è una salamandra priva di occhi e di pigmento che può vivere solo nelle acque fredde e ossigenate di un torrente sotterraneo, ma solo se la temperatura si mantiene sotto i dieci gradi e se il buio è perenne. Se la temperatura salisse di qualche grado, o l’acqua venisse inquinata da uno scarico o una luce fosse accesa nella grotta per mostrare le stalattiti ai turisti, il proteo sarebbe finito e la biodiversità segnerebbe meno uno. I candidati all’estinzione nelle nostre regioni sono migliaia, mentre le specie che aumentano sono poche decine, ma di grande peso e impatto visivo anche sull’opinione pubblica. Ci aspetta un futuro di globalizzazione faunistica: un mondo popolato da poche specie animali con grandi numeri e addio alla meravigliosa varietà della vita che fino ad oggi l’ evoluzione era riuscita a inventare. Perdere così la biodiversità sarebbe un peccato.