Romano Pesenti

Nella storia dell’umanità la sensibilità verso la privazione della vita degli animali è stata oggetto di continue variazioni in relazione ai tempi, all’ambiente, agli usi, alle necessità alimentari, alle convinzioni etiche, filosofiche, religiose, e all’ethos proprio di ogni società. Per millenni l’uomo non ha avuto alcun dubbio sul potere di disporre sen­za limite dell’uso e della vita degli animali sia selvatici che domestici. Da pochi decenni, ed esclusivamente nelle comunità urbane (nelle quali l’uomo, ha contatto solo con gli animali di compagnia e ne antropomorfizza il rapporto) sono sorte correnti “animaliste” che tendono a riconoscere agli animali un diritto alla vita e alla libertà pari a quello dell’uomo: esse si richiamano impropriamente alla legislazione vigente, che invece vieta di infliggere “sofferenze inutili” agli animali, considerate “offesa” a quel senso di pietà verso la sofferenza che è comune a tutti gli uomini (la legge esclude la macellazione alimentare, quella rituale degli ebrei e dei musulmani, la caccia, la pesca e la vivisezione scientifica).

Senza entrare in una discussione filosofica, nessuno può dubitare che la posizione degli animalisti sarebbe credibile se essi rinunciassero al cuoio in tutte le sue forme e se fossero tutti vegetariani, perché le idee valgono per quel che costano, e una deroga per motivi utilitari o gastronomici vulnera la serietà del principio mo­rale che si vuoi sostenere.

La giustificazione “alimentare”, addotta da chi mangia carne, è una “foglia di fico” perché oggi nel nostro paese nessuno mangia più per fame, e il cibo viene scelto in funzione della golosità cioè del “piacere della tavola” che se ne ricava.

E se il “piacere della tavola” giustifica la morte di un animale, simmetrica­mente deve avvenire per il piacere della caccia: non si può vietare ad alcuni quello che si concede ad altri. In realtà la morte di animali ha un rilievo diverso a seconda delle circo­stanze in cui si verifica perché quando è richiesta da ataviche consuetudini social­mente metabolizzate, ne risulta legittimata la condizione psicologica spersonalizzata e di indifferenza morale del cacciatore, del mangiatore di carne, di chi calza scarpe di cuoio o del pescatore.

La dimensione valoriale dei singoli atti che fanno parte di una attività com­plessa, va rapportata alla condizione psicologica dell’agente e alla collocazione di ciascun atto rispetto al risultato finale.

Come avviene per molte attività umane, sia nell’alimentazione a base di carne che nella caccia gli eventi finali sono l’esito di una sequenza articolata di sin­goli atti concatenati, legati tra loro dal risultato. Se uno degli anelli di questa catena si estrapola dalla sua sequenza logica e temporale, e si valuta in sé, sconvolgendo la collocazione sequenziale, il risultato è aberrante.

Ad esempio la bistecca prima di dare piacere al buongustaio, richiede tut­ta una sequenza di operazioni preliminari: nascita e allevamento dell’animale, ucci­sione, macellazione, preparazione, condimento e cottura. E’ corretto alterare la sequela normale e, accoppiando arbitrariamente due elementi fuori dalla loro collocazione, dire che “il piacere del buongustaio è uccidere l’animale”?

Analogamente il piacere della caccia (come non sanno i profani) nasce da riti, emozioni, preparazione, camminate in campagna, esplorazione, aleatoria ricerca dei selvatici con la collaborazione del cane; ferma del cane; avvicinamento ai selvati­co, sparo e, non sempre, uccisione.

E’ falso e aberrante disarticolare gli anelli della catena e accoppiarli nella formula “il piacere del cacciatore è uccidere”.

Come l’uomo che si nutre di carne è carnivoro ma non è un carnefice, così il cacciatore che spara alla preda non è un macellaio: parificare la caccia alla macel­lazione è solo un espediente polemico e di non alto profilo.

L’estraneità morale alla privazione della vita animale dì chi si conforma ad una tradizione consolidata, trova riscontro in un altro dato obiettivo: fuori dal proto­collo della tavola e della caccia nessun mangiatore di carne scannerebbe con le sue mani un vitello o un agnello, e nessun cacciatore sarebbe capace di torcere il collo con le sue mani ad un fagiano vivo!

Per esempio: il chirurgo notomizzatore e il folle assassino compiono sui cadavere una stessa attività materiale, ma le due cose sono forse comparabili?

E ancora: il soldato che priva della vita il nemico (un essere umano) non è un assassino perché nel contesto bellico il nemico non è considerato come una per­sona umana, ma come un pericolo da eliminare. Manca nel soldato la intenzione e la volontà di uccidere un essere umano tanto che in pace non sarebbe mai capace di privare un uomo della vita.

Il cacciatore che nell’attività venatoria spara alla preda, non la considera un essere animato, ma una “cosa” cui è lecito sparare: non trae piacere dalla sua uccisione, ma dal fatto assai diverso, che la caccia è stata fruttuosa.

Se il piacere dei cacciatore consistesse nell’uccidere animali, allora frequenterebbe solo quagliodromi o starnodromi (strutture frequentate invece solo dai cinofili per addestrare i cani).

in conclusione si vuoi dire che il giudizio su una qualunque attività umana va espresso dopo una appropriata valutazione del complesso giustificativo antropo­logico, culturale e consuetudinario con il suo retroterra di implicazioni, nel quale l’azione si colloca e solo attraverso questo filtro qualificativo il giudizio sarà corretto.

Del resto questi principi sono stati approfonditi dalla sociologia comportamentistica, che studiando i comportamenti individuali dei fenomeni umani ha dato il giusto rilievo ai condizionamenti sociali e consuetudinari.

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