CACCIATORI DI MONTAGNA, DI BECCACCE E BECCACCINI

Il più felice non è assolutamente chi ammazza di più ne tantomeno chi trova di più e neanche chi ha i cani migliori, il più felice è semplicemente colui che trae il maggior godimento e divertimento nel trascorrere il tempo nel bosco o in montagna dietro la coda del proprio cane inseguendo le prede desiderate…….."magari in solitaria nel più alto rispetto di chi e di cosa lo circonda"

C’ERA UNA VOLTA…di Lucio Scaramuzza

Museo Comunale della Civiltà Contadina e degli Antichi Mestieri Ferrandina Matera Campania

C’era una volta un bellissimo territorio del nostro Appennino popolato da tanta gente che viveva su queste montagne grazie ad un lavoro ritmato dalle stagioni, duro, incessante, in certi periodi dell’anno dall’alba al tramonto ma, abbastanza felice o comunque, sufficiente a procurare serenità.

Tutti avevano dei campi dove coltivavano il frumento e al tempo della mietitura la famiglia al completo era coinvolta e partecipava alacremente alla raccolta del grano.
La si faceva a mano con il falcetto, si formavano tanti covoni che alla sera venivano raccolti sistemati in ordine sul carro trainato dai buoi e portati a casa.

Dopo la mietitura, arrivava in paese la trebbiatrice, ciascuno portava i covoni raccolti e ritirava i suoi sacchi di frumento e le balle di paglia che sarebbero servite durante l’inverno per “far il letto” alle vacche nella stalla.

Quel giorno era sicuramente una grande festa. a cui partecipavano tutti a partire dalle donne con i bambini al collo fino ai più vecchi che si facevano accompagnare nel piazzale dove avveniva la trebbiatura, si sedevano all’ombra e chiacchieravano fra loro con un occhio attento ai sacchi di frumento che ciascuna famiglia aveva prodotto.

I sacchi poi venivano portati al mulino dove le macine di pietra frantumavano i chicchi e separavano la crusca dalla farina.

A dire il vero un po’ di crusca rimaneva nella farina e questo contribuiva a fare un pane più scuro, ma più profumato.
Il rito dell’impastare il pane e farlo cuocere nei forni esterni alle case si ripeteva settimanalmente: allora nell’aria, per tutto il paese si spandeva un profumo che faceva si venire l’acquolina in bocca, ma era qualche cosa di più, era il profumo della vita.

In quel pane c’era dentro, oltre la qualità del grano, l’abilità e la fatica delle donne, l’aroma del legno bruciato nei forni, la limpidezza e dolcezza dell’acqua sorgiva. c’era soprattutto il sudore e la fatica che lo rendeva così importante e così prezioso.

Oltre che a frumento e fieno per il bestiame, alcuni campi erano coltivati a patate, indispensabili all’alimentazione famigliare. Venivano conservate in cantina al buio e l’eccedenza veniva posta sotto un cumulo di terra per essere riseminata . Si trattava di patate straordinarie, cresciute a 900/1000 mt, non molto grosse, ma saporite tanto che quando il raccolto era abbondante se ne faceva anche del pane soffice e gustoso .

Il lavoro nella buona stagione non finiva mai e molte volte le donne erano chiamate per rastrellare e raccogliere il fieno falciato in modo che seccasse bene e velocemente e si conservasse per l’inverno

A fine luglio prima della mietitura se guardavi la valle vedevi il territorio fino ad una certa quota, costellato da un’infinità di rettangoli più o meno regolari di un bel giallo oro, alternati da rettangoli verdi.

Le erbe mediche si alternavano ai campi di grano ai campi di patate formando una scacchiera irregolare ma ordinata, frutto di un lavoro duro e sapiente e subito dopo la mietitura il giallo delle stoppie, poco alla volta cedeva il passo al verde del trifoglio che nasceva velocemente fino a ricoprirle completamente.

I campi erano delimitati e attraversati dalle scoline tenute sempre perfettamente pulite in modo che l’acqua dei temporali fosse convogliata nei torrenti senza provocare danni alle colture e al territorio.

Le pernici che da migliaia d’anni vivevano su quel territorio sapevano dove deporre le uova e per non rischiare che i loro nidi fossero distrutti, covavano sugli argini o nei pezzetti di terra lasciati incolti dove l’uomo non sarebbe andato e poi quando schiudevano le uova portavano i piccoli a mangiare nelle stoppie ricche anche di cavallette e di insetti vari che per i piccoli nelle loro prime fasi di vita erano assolutamente indispensabili.

Se percepiva qualche pericolo la vecchia li portava nelle erbe mediche folte e quasi impenetrabili o in qualche cespuglio dove difficilmente il falco o la poiana sarebbe potuta arrivare. Se invece arrivava la volpe, allora la pernice l’affrontava con un coraggio davvero inimmaginabile, si mostrava a pochi metri dall’assalitore faceva dei salti con l’ala abbassata e ricadeva a terra come se fosse davvero ferita, questa ingolosita dalla facile preda si precipitava e allora la pernice faceva un altro salto e si portava una decina di metri più in là e ricominciava la sceneggiata e così rischiando la propria vita, pur di salvare la sua nidiata, simulando in modo perfetto d’essere ferita, portava poco alla volta l’aggressore lontano dai piccoli e quando era sicura di averlo sufficientemente allontanato, con un volo sicuro ritornava dai suoi piccoli che si erano schiacciati al suolo perfettamente mimetizzati in attesa della madre.

Che stupendi animali c’erano una volta, chi non li ha visti non può immaginare quanto erano belli e perfettamente ambientati quanto erano capaci di vivere in quel territorio, d’estate come d’inverno e quanto sarebbe importante, almeno tentare di riportarli su queste montagne, dove un tempo erano presenti in buona quantità.

Anche le quaglie ogni anno arrivavano puntuali a fine aprile, evidentemente venivano volentieri in questi territori perché arrivavano davvero numerose .
Anche per loro si trattava di terreni ospitali, ricchi di alimenti di vario genere (oggi diremmo ricchi di biodiversità), ricchi d’acqua, posti adatti per covare e allevare i loro piccoli, per poi a fine estate, ripartire per l’Africa.

La sera nelle lunghe giornate estive prima d’andare a dormire gli uomini uscivano e si sedevano sulla soglia di casa, tiravano fuori la tabacchiera che probabilmente era stata del padre o forse del nonno, sfilavano le cartine con cui avvolgevano un po’ di tabacco con gesti sempre uguali, tramandati da padre in figlio e dopo averle inumidite con la lingua, le avvolgevano e finalmente si fumavano in pace una sigaretta.

Il canto incessante delle quaglie faceva da sottofondo ai mille pensieri che gli uomini rincorrevano, canto che invadeva tutta la valle e anche quando calava il buio e gli uomini si ritiravano le quaglie continuavano a cercarsi chiamandosi fino all’alba.

Spesso al piano terra della casa vi era la stalla dove albergavano una copia di buoi per i lavori nei campi, e quattro o cinque vacche che fornivano il latte, di uso quotidiano; ogni tanto si faceva un panetto di burro, cibo prezioso e centellinato dalla padrona di casa ai vari membri della famiglia.

Con il latte in eccesso si faceva il formaggio, grasso, saporito, e in primavera anche profumato di fiori.

Era talmente buono che la gente “di via” faceva carte false per averlo.

Portare al pascolo le vacche dalla primavera all’autunno era compito dei ragazzi. Infatti secondo le regole dell’economia domestica del tempo, appena concluse le scuole elementari, i figli dovevano partecipare alle attività di casa: le femmine aiutavano mamme e nonne e i maschi seguivano i papà nei lavori meno faticosi. Uno di questi era appunto il pascolo, non del tutto sgradito perché era anche occasione d’ incontrarsi sui monti e dar sfogo a una vivacità infantile fatta di giochi e chiacchiere.

Non che non fossero responsabili questi ragazzini, anzi conoscevano bene il da farsi fin da quando, la mattina prestissimo ,ancora assonnati, guidavano le loro vacche attraverso le viuzze del paese su, su, fino ai pascoli.

Avevano in corpo un’abbondante tazza di pane e latte e nel tascapane una razione di polenta, condita col formaggi , saziante e nutriente.

Per bere c’erano le sorgenti, punto di ritrovo per consumare il pasto insieme agli altri.

Non era un’ infanzia negata, non era sfruttamento del lavoro minorile, era un altro modo di diventare adulti.

La sera il ritorno dal pascolo era trascinato dagli umani e dalle bestie: gli uni quasi si addormentavano sul tavolo di cucina, le altre ,senza bisogno di pungoli, filavano dritte alla stalla per essere munte.

Molto spesso quando i bambini erano impossibilitati a portare le bestie al pascolo, ci andavano le donne di casa che, per non perdere tempo, si portavano il lavoro a maglia; le vedevi in piedi che tricottavano senza posa un paio di calzettoni o un maglione, il gomitolo di lana in una tasca e i lunghi ferri sotto le ascelle.

Il lavoro delle donne non finiva mai: una volta accudita la casa, il marito ,i figli , i vecchi e dopo aver svolto le mansioni di cui s’è parlato sopra, trovavano il tempo di coltivare l’ orto e tenere il pollaio.

Era vanto personale che fossero entrambi curatissimi e fecondi; d’altronde erano una fonte di beni alimentari non da poco.

Il pollaio costituiva anche una piccola fonte di reddito, perché uova e pollastri venivano occasionalmente venduti al mercato.

Roba da ricchi i pollastri a quel tempo! e da buon gustai ,data la loro carne soda e saporita, tanto diversa da quella cui siamo ora abituati.

Poi arrivava l’inverno…I lavori nei campi erano finiti con l’autunno, si era seminato il frumento per l’anno prossimo e alla mattina e alla sera nei campi seminati era facile trovare le pernici venute a beccare qualche chicco di grano. Erano difficili da avvicinare, ormai erano adulte, diverse da quelle settembrine, ora erano perfettamente formate, perfettamente piumate, e lo si capiva dal frullo forte potente e sempre emozionante.

La legnaia era stata riempita e i pezzi di legna perfettamente accatastati facevano bella mostra di se, era come un mosaico e guardarlo dava un senso di sicurezza e di tranquillità, anche quell’anno il freddo che stava arrivando non avrebbe fatto paura e finalmente si stava un po in pace.

Le prime nevicate mettevano tutto a tacere, ti svegliavi una mattina con un gran silenzio, anche il gallo nel pollaio quella mattina non aveva cantato o almeno nessuno lo aveva sentito, ti affacciavi alla finestra ,ma prima ancora di guardare, già sapevi che avresti visto tutto bianco e pur facendo magari meno freddo d’altre mattine si correva in cucina, facendo finta d’essere infreddoliti più del solito, dove trovavi già la stufa accesa e dove c’era un bel tepore e, senza un motivo reale, tutti sorridevano.

Dopo un po’, ma più tardi del solito, cominciavano i primi rumori, erano gli uomini che con i badili aprivano le prime stradine per andare alla stalla o al pollaio, o per arrivare sulla strada principale. Poi, e a questo contribuiva tutto il paese, si apriva la strada per permettere ai bambini d’andare alla scuola che era quasi sempre un po fuori dal paese, e normalmente ospitava anche la maestra, a turno si puliva attorno alla scuola e magari, con il cappello in mano, si bussava alla porta della maestra per sentire se aveva bisogno di qualche cosa, e pur sapendo che la legnaia della scuola era piena, anche solo per un atto di cortesia, ci s’informava se aveva bisogno di qualche cosa se aveva la legna per lei e naturalmente per i bambini.

Per ultimo si cominciavano a sentire i bambini che uscivano di casa per andare a scuola, rincorsi dalle ultime raccomandazioni della mamma o della nonna, erano raccomandazioni smorzate a metà dallo sbattere dell’uscio di casa che si chiudeva rapidamente alle loro spalle.

I bambini pur avendo capito perfettamente, non potevano resistere alla tentazione di giocare nella neve e di tirarsi le palle di neve, per cui molti per non dire quasi tutti, arrivavano a scuola bagnati e infreddoliti con le mani rosse anzi un po’ violacee, la maestra prima li sgridava e poi li faceva mettere vicino alla stufa per asciugarsi bene, in modo che non prendessero qualche malanno.

Le scuole erano molto diverse, dalle scuole di oggi e qualcuno oggi si scandalizzerebbe di come erano organizzate, ma invece secondo me erano eccezionali e le maestre delle vere eroine, nei paesi c’erano allora molti bambini ma certamente non sufficienti per creare delle sezioni diverse a secondo delle varie classi, per cui all’interno della medesima c’erano i bambini di prima elementare e i bambini di quinta elementare, e la maestra che però godeva di grande autorevolezza, sia nei confronti dei bambini sia nei confronti dei genitori, riusciva a gestirli tutti, sicuramente con più facilità di quanto succede ai giorni nostri. In effetti queste maestre, che restavano tutto il periodo dell’anno scolastico nel paesino, abbandonate da Dio e dagli uomini, se venivano dalla città facevano davvero molto fatica ad abituarsi, se viceversa venivano anche loro dalla campagna sapevano adattarsi con più facilità e spesso s’integravano bene con il paese. Devo dire che erano davvero brave, anzi bravissime perché molte volte non si limitavano a far scuola ai bambini, ma diventavano le confidenti di molte famiglie ,e sapevano aiutarle al di la del loro dovere d’insegnante. Insomma le maestre come il medico che ogni tanto arrivava in paese dal capoluogo del comune, non si limitavano a insegnare o a prescrivere medicine, ma venivano spesso coinvolti in piccoli o grandi problemi della famiglia, o del paese tutto.

A proposito del medico il comune allora aveva fra i tremila e i quattromila abitanti , le strade percorribili con mezzi meccanici erano davvero poche ed il medico che abitava nel capoluogo disponeva di due cavalli uno era quello di S.Francesco, l’altro messogli a disposizione dall’amministrazione comunale.

Però quando c’era una reale necessità partivano dalla frazione un uomo o due a secondo di che tempo faceva, e se c’era la neve partivano con i buoi e la slitta e andavano a prendere il medico per portarlo dal loro congiunto ammalato e poi riportavano il medico nuovamente a casa, stavano in ballo a volte tutta la notte e a volte anche la mattina dopo. Allora il medico sapeva fare un po’ di tutto dal dentista al ginecologo, dal pediatra al chirurgo anche perché non c’erano alternative nella maggior parte dei casi.

Dai vecchi ho sentito raccontare che una donna incinta all’ultimo mese che abitava in una frazione fra le più lontane dal capoluogo si trovò in casa da sola con il marito ammalato, il suocero vecchio, incapace di camminare e altri due figli piccoli, senza pensarci due volte, anche se era pomeriggio, si copri bene, era inverno e c’era la neve e per arrivare in paese e chiamare il medico doveva camminare per oltre tre ore e salire sulla montagna e scendere verso il capoluogo. Ma la donna conosceva bene quelle montagne fin da piccola le aveva frequentate portando gli animali al pascolo e poi andando per funghi, e non si fece certo scoraggiare ne dal freddo ne dalla neve, ne tanto meno dalle ore di cammino che doveva fare, s’incamminò velocemente e nell’arco di 4 ore arrivò in paese per scoprire che anche il medico era ammalato con la febbre alta .

Il medico però dopo averla ascoltata, le consegnò alcuni medicinali da somministrare subito al marito dicendole che appena la sua febbre fosse scesa un po’, sarebbe venuto.

La donna la notte stessa riparti per tornare a casa, ma proprio quando era nei boschi e stava arrivando al crinale, le vennero le doglie e dopo poco partorì da sola in mezzo al bosco cercando una zona dove non ci fosse neve, non si scoraggiò aveva già partorito e sapeva cosa fare, alla fine raccolse suo figlio lo avvolse nei suoi panni che aveva addosso e per scaldarlo se lo mise proprio sulla pelle e ritornò a casa.

Dopo due giorni arrivò il medico e per fortuna trovo il marito che stava meglio e la moglie che allattava il bambino tranquillo, bello, sano come se niente fosse successo.

Una cosa di questo genere, oggi, sarebbe andata sui giornali di mezzo mondo, ed effettivamente anche allora fu considerata una cosa eccezionale, soprattutto per la tempra, il carattere, il coraggio di questa straordinaria donna, ma secondo me la cosa ancor più eccezionale era che chi me la raccontò la considerava si un fatto importante, ma non così eccezionale come appare a noi oggi .

Io dico che queste cose non succedono per caso, ma succedono perché la gente che viveva sulle nostre montagne era abituata da generazioni forse da millenni ad un lavoro duro, incessante, senza scorciatoie, uomini e donne abituate ad affrontare le difficoltà con la loro forza, la loro determinazione, senza farsi intimidire da niente e da nessuno, pronti a sacrificarsi fino all’estremo per la famiglia.

E’ da questo modo di vivere e da questa cultura che nascono quasi spontaneamente fatti di questa rilevanza, che a noi sembrano oggi assolutamente eccezionali, ma che per loro sono apparsi quasi normali.

L’inverno comunque era per tutti un momento di riposo, a volte con calma facendosi aiutare dal vicino, anche per fare quattro chiacchiere, gli uomini si recavano nella stalla dove non faceva freddo e lì aggiustavano gli attrezzi che si erano rotti durante i lavori estivi, o magari intrecciavano con il vimine raccolto nell’autunno, qualche cesto, indispensabile per andare a raccogliere i funghi o per portarsi la colazione nei campi nei momenti di grande lavoro o per portare le uova e i polli giù in paese o perché no, venderli al mercato.

Qualcuno se la neve non era troppo alta, andava a fare un giretto nei terreni sotto o sopra il paese per vedere se le lepri avevano tracciato o se ancora erano rimaste ferme al covo in attesa che la neve ghiacciasse e permettesse loro di muoversi più facilmente e senza lasciare tracce.

Una bella polenta e lepre in questa stagione era un richiamo irresistibile.

Pur non essendo cacciatori sapevano distinguere i maschi dalle femmine dalla forma delle fatte che trovavano e qualcuno, per un istinto naturale rivolto alla conservazione, se poteva preferiva rispettare le femmine, in effetti ci tenevano un po tutti che attorno al paese ci fossero anche loro.

Sapevano che era proibito, ma è anche vero che quell’estate mentre falciavano s’erano accorti almeno in due o tre occasioni, dei leprotti, erano grossi un pugno e li avevano allontanati messi nella siepe che bordeggiava il campo per evitare che fossero calpestati e per evitare che la poiana ne facesse un boccone.

Quindi se li sentivano un po’ anche loro, anche perché erano diventati grandi grazie all’erba medica al trifoglio, che loro avevano seminato e fatto crescere…e a dire il vero mi era difficile dargli torto.

A volte con le prime nevicate su sopra il paese nelle ginepraie dove fino ad un mese prima i bambini portavano ancora le vacche al pascolo, calavano le cesene a volte erano davvero tante, e diventava una cosa irresistibile tendere le trappole fatte con i sassi, a volte la fortuna aiutava e arrivavano a catturarne davvero tante.

Erano buonissime con le carni già profumate di ginepro, qualcuna l’avrebbero mangiata, ma la maggior parte sapevano che avrebbero trovato facilmente chi era disposto a comprarle e a pagargliele bene, quei soldi a volte erano come manna dal cielo servivano a comprare gli scarponi al figlio più grande che era cresciuto di colpo e i suoi scarponi, che adesso non riusciva più a calzare, sarebbero passati finalmente al fratello più piccolo .

L’inverno era lungo, ma come per la terra e per la natura in genere, anche gli uomini riposavano, in attesa della primavera.

L’unico lavoro era accudire il bestiame nella stalla, tenerlo pulito, dargli da mangiare e mungerlo.

Nelle notti di luna piena appena fuori dal paese sulla neve ghiacciata a volte si vedevano le volpi, erano come fantasmi, ombre assolutamente silenziose, che cercavano di camminare sotto i muri a secco sfruttando l’ombra che la luna faceva, sempre attente e sempre in cerca di qualcosa da mangiare.

Era questo il momento che indossavano una pelliccia bellissima folta e morbida e di un colore rosso fuoco, passavano vicino al paese per vedere se sulle concimaie riuscivano a trovare qualche cosa da mangiare, ma erano molto attente, perché diffidavano giustamente dell’uomo…. Allora le pellicce venivano pagate bene.

Ma con il freddo normalmente nel mese di gennaio, si avvicinava anche uno dei momenti più attesi dalla famiglia, la macellazione del maiale. Il maialino era stato comprato a gennaio dell’anno prima e per tutto l’anno anche con qualche sacrificio, era stato alimentato con granoturco, un po’ di frumento, con le ghiande, e con tutti gli avanzi della famiglia ,il maiale era cresciuto bene era grasso ed aveva raggiunto i 220/230 Kg con un abbondante strato di lardo. A volte onori ed oneri venivano divisi con un altra famiglia perché non sempre ci si poteva permettere di allevare bene un maiale, a volte costava troppo dover anticipare per un anno intero sia la spesa d’acquisto sia il mantenimento.

Nella valle c’erano varie copie di norcini, tutti bravi, ma ciascuno aveva le sue preferenze, ed allora si prendevano accordi per tempo, perché, specie i più bravi, erano richiestissimi.

Quando arrivava il momento , fuori sull’aia si preparava un grande fuoco con su un gran paiolo di rame, prima pieno d’acqua bollente che versata sul maiale appena macellato, serviva a togliere le setole, bisognava vedere con quanta abilità i norcini senza mai fare un graffio , con i loro coltelli affilatissimi di cui erano gelosissimi, e che nessuno poteva toccare per nessuna ragione al mondo, sapevano ripulire il maiale, alla fine restavano le due mezzene perfettamente pulite con una pelle rosa uniforme sicuramente già invitante.

Gli uomini guardavano con attenzione le mezzene e valutavano compiaciuti lo spessore del lardo.

Poi venivano smembrate in tanti pezzi facendo grande attenzione ad effettuare i tagli in modo corretto ,in modo da ricavare le coppe le pancette e poi le carni per i salami e per i cotechini, l’abilità dei norcini stava proprio nel sapere tagliare le carni e poi nelle salature che dovevano essere giuste per dare sapidità alle carni mantenendole però dolci e profumate .

Poi ci pensava l’aria buona e la stagionatura a fare il resto.

Difficilmente li avrebbero mangiate loro, erano destinati ad essere venduti, se ben confezionati e stagionati, erano ben pagati e quei soldi erano molto importanti anche nel caso che qualcuno in famiglia s’ammalasse, il medico i medicinali erano davvero costosi.

Ma il primo giorno a mezzogiorno più che un pranzo era un rito quello che si consumava a cui naturalmente partecipa tutta la famiglia, la padrona di casa verso le undici comincia a preparare la polenta, ci voleva almeno un ora di cottura per fare una buona polenta, poi arrivavano i norcini e portavano il fegato con la reticella, i primi sanguinacci e qualche costina mal ripulita dalla carne che le circonda .

Il fegato veniva tagliato a fette e avvolto nella reticella per mantenerlo morbido e così intanto che veniva pronta la polenta si cominciava a far friggere tutto quel ben di Dio, poi quando tutti erano a tavola e tutto era pronto arriva la padrona di casa con il paiolo e su un grande tagliere di legno veniva con un sol colpo rovesciata la polenta, una grande nuvola di vapore si alzava verso il soffitto ed un bel profumo, di cose vere e buone riempiva tutta la stanza, subito dopo arrivava il fegato accompagnato dai sanguinacci, e dalle costine e la padrona di casa li distribuiva equamente a tutti, si trattava di una cosa deliziosa che tutta la famiglia aspettava con trepidazione….. finalmente si cominciava a mangiare…… 

L’aratura e la semina in autunno, la mietitura, la raccolta delle patate, i pascoli, l’uccisione del maiale in inverno erano alcuni fra i più importati riti che cadenzavano la vita di questa gente ,che vivevano lavorando e faticando in perfetta simbiosi con la natura e con i suoi ritmi, senza forzature, accettando ciò che la terra ogni anno dava.

Ogni tanto qualcuno dei vecchi s’ammalava e moriva , prima arrivava il medico e poi il prete e al funerale partecipava tutto il paese e spesso venivano anche dai paesi vicini a porgere l’ultimo saluto.

Fuori dal paese c’era il camposanto messo sovente in una posizione da cui si vedeva tutta la valle o almeno i monti che la circondavano e secondo me da lì, finalmente in pace, si godevano i loro monti, la loro valle, da cui molti nella loro vita, come le pernici, le lepri, le volpi, non ne erano mai usciti.

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6 Comments

  1. riccardo

    Se mi chiedessero di esprimere un desiderio io vorrei fare un salto indietro nel tempo e vedere quel mondo che non ho conosciuto ma che,come in questo racconto,mi e’ stato piu’ volte narrato dai “vecchi”.

  2. Federico

    tutto quello che mi ha fatto crescere un mondo chiaro pulito con persone altrettanto pulite! Tutti dovrebbero vive queste esperienze! Complimenti a chi l’ha scritto!!!

  3. Carlo Gastaldi

    Che bel racconto! Oggi quegli stessi posti probabilmente sono disabitati. La montagna non è più la stessa il bosco ha cancellato i campi coltivati, i cinghiali hanno sostituito le lepri e i caprioli hanno il posto delle pernici. Coi mezzi di oggi potrebbe rinascere una economia simile condita da molta meno fatica. Si tornerebbe a gestire la montagna, si ridurrebbero i problemi idrogeologici e tornerebbero pernici e lepri. Ci vorrebbe un’ispirazione, un’idea, un sogno … e una classe politica che pensi al Paese e non, solo, alla poltrona!

    • Si, ma sarebbe più facile se la selvaggina fosse poi proprietà di chi conduce il fondo e non dello stato.

  4. antonio

    mentre leggevo mi son venute le lacrime. Maestosamente bello. Io un po’ di quel mondo l’ho vissuto e mi manca da morire. Questo mondo di oggi non mi piace.

    • Lucio

      sono assolutamente d’accordo, tutto sarebbe più facile se la selvaggina fosse di proprietà,come lo e’, con sfumature diverse, in quasi tutto il mondo,ma sarebbe anche meno evidente l’attrito fra i cacciatori e i protezionisti, e probabilmente molti terreni oggi praticamente abbandonati potrebbero essere rivalutati, “allevando selvaggina allo stato naturale”, e forse alla fine ,ma non ultimo potremmo ritornare ad andare seriamente caccia.

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