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Quando mise in moto il motore l’alba cominciava a rischiarare l’aria tersa e frizzante  di una domenica qualunque, che qualunque per Ingo non era. Le partenze sono tutte dolorose, siano esse da un paese come da se stessi, dai confini imprecisi di un terra lontana come dai confini più nitidi di una storia d’amore.

“Le partenze lasciano brandelli di ricordi che solo in parte riesci a mantenere intatti nel cuore e nell’anima, dopo un po’ si sfumano negli occhi rimanendo solo le immagini più forti o più nette” -questo pensava Ingo lungo la strada che da Galovac porta all’autostrada per Rijeka. Questo era il suo stato d’animo dopo appena una settimana in Croazia.

Lui che era andato laggiù per una serena e spensierata settimana dedicata all’addestramento dei suoi setter e giorno dopo giorno aveva cominciato ad apprezzare il sapore della vita semplice e concreta di una terra e di un popolo che non ha tempo per porsi troppe domande sul passato, perché deve inseguire il futuro.

Lui che si è trovato in mezzo ad amici mai conosciuti prima, gente rude ma dallo sguardo onesto, mani ruvide che non sanno mentire, abituate a combattere e a costruire la vita pietra su pietra.

Lui ora faceva fatica a tornare, faceva fatica a dimenticare quello scorrere lento ma inesorabile del tempo che ricerca una modernità per fortuna ancora lontana. Faceva fatica a rimanere indifferente verso quelle costruzioni impalpabili che da noi sono i cimiteri e che, invece, laggiù segnano il confine indelebile tra quello che è stato e quello che più non sarà. Ingo a Galovac non ha solo incontrato le starne diffidenti di una primavera che avanza, ma la fatica di un popolo che deve continuare a sperare al di là delle stagioni, oltre i campi di grano e di sassi che hanno lasciato le bombe lanciate dalla democrazia, brandelli di sabbia e di rabbia negli occhi e nel cuore che ti asciugano tutte le lacrime rimaste.

Ingo a Galovac ha sfiorato la suadente tenerezza di un popolo ancora in ritardo con questo secolo, oggi ancora convinto di raggiungerlo rimanendo se stesso, fedele ad una stretta di mano, incapace di correre senza guardarsi indietro, indissolubilmente legato ad un gesto, a una carezza ruvida di una vecchia civiltà nascosta in un foulard, che pascola il suo tempo tra sterpaglie e nuovi germogli.