CACCIATORI DI MONTAGNA, DI BECCACCE E BECCACCINI

Il più felice non è assolutamente chi ammazza di più ne tantomeno chi trova di più e neanche chi ha i cani migliori, il più felice è semplicemente colui che trae il maggior godimento e divertimento nel trascorrere il tempo nel bosco o in montagna dietro la coda del proprio cane inseguendo le prede desiderate…….."magari in solitaria nel più alto rispetto di chi e di cosa lo circonda"

Le memorie di Adelio Ponce de Leon “Parte prima di tre”

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Dalla giovinezza alla vecchiaia

Superata la soglia dei novant’anni, non mi resta che rivivere la mia lunga avventura cacciatoresca nei ricordi che ripercorrono tanti cambiamenti, dalla caccia libera ovunque al susseguirsi dei divieti sempre più severi contro la nostra passione, alla fauna stanziale autoctona che è mutata nella quantità vicina all’estinzione o in novità di specie, in un panorama di esercizio tanto mutato durante un secolo.

All’inizio del Novecento, la caccia era praticata in massima parte da contadini, operai, impiegati, benestanti, gente del popolo che godeva della tranquillità della vita del Paese, paga della quantità di selvaggina abbondante nelle campagne, in pianura, nei boschi, in collina e in montagna, ove era possibile cacciare in ogni parte d’Italia con la sola licenza di caccia.

La maggior parte dei cacciatori era costituita da vaganti che riempivano il carniere con uccelletti, dagli insettivori ai granivori, con aggiunta di allodole, storni, merli, tortore, tordi e acquatici, quelli viventi ai margini dei laghi, dei fiumi, dei mari o nelle paludi.

La lepre, preda ambita, era il sogno di tutti e già nei paesi si formavano compagnie di seguisti; la fauna alpina era più preda dei montanari, la maggior parte bracconieri; pochi gli specialisti della selvaggina nobile quale la starna, la pernice, la beccaccia, il beccaccino.

La nobiltà e i ricchi cacciavano in grandi tenute e riserve, in Piemonte attorno alle riserve reali o nelle poche padronali, ove primeggiava quella di Palanfrè ai confini con Sant’Anna di Valdieri, fondata da Vittorio Emanuele II, in Toscana dai Gherardeschi, Rucellai, dai Medici, nel Lazio dai Barberini, Colonna, Odescalchi, anche nella Maremma toscana e laziale, specialmente a cinghiali, quelli autoctoni, eredi delle cacciate degli antichi romani.

L’entrata in guerra del 1915 portò la maggior parte dei giovani e degli uomini validi sotto le armi e molti cacciatori, quasi tutti, andarono al fronte. Il territorio, in cinque anni, si arricchì di selvaggina non più insidiata dai cacciatori.

Ancora in fasce, nella culla, ho aspirato il profumo della caccia…

… quando Zanzur mi annusava leccandomi. Zanzur, uno sloughi tutto nero, lo aveva portato dall’Africa lo zio Dante, guardiamarina sull’Amerigo Vespucci al tempo dello sbarco in Libia durante la guerra italo-turca. Lo aveva prelevato sulla soglia della moschea di Zanzur, abbandonato dai turchi in fuga. Il veloce levriero del deserto vegetava nella grande casa prealpina soffocata dieci mesi all’anno dalla nebbia mattutina che sale dal lago. Addormentato, sognava forse la sabbia ocra delle dune e le infuocate pietraie dell’Hammada e del Serir, consunte dal sole e dal Ghibli, le corse sfrenate nel deserto, la terra di tutti e di nessuno, priva di qualsiasi ostacolo. Viveva le sue giornate raggomitolato ai lati della mia culla, perché i boschi e le colture prealpine gli vietavano le ebbrezze della velocità. Poi mio padre lo aggregò alla muta dei segugi del Guglielmo del lago e divenne un portento. Superava le lepri in velocità, come faceva nel deserto, e le obbligava a deviare verso le poste dei cacciatori.

Ho aspirato l’odore della cucina…

… nelle braccia dell’ava materna Adele, gelosa custode di ancestrali ricette, giunte a lei tramandate di madre in figlia, ricette a base di lepre, di camoscio, di capriolo, di cinghiale, e passate a Maria, mia madre, per testamento in busta chiusa. Solamente un estraneo, oltre alla servitù, aveva accesso alla cucina di nonna Adele, una volta all’anno, il 20 settembre, festa nazionale per la breccia di Porta Pia e giorno della sagra del paese, un tal Milesi, che aveva fatto lo chef sui transatlantici per oltre trent’anni. In quella data convenivano nella avita casa i parenti delle due casate, la paterna e la materna, a gustare il salmì preparato con il camoscio che tutti gli anni papà Antonino uccideva a Palanfrè, nelle Alpi del Colle di Tenda.

L’odore forte della carne cruda che, partendo dalla cucina, attraverso i locali arrivava fino al salone, penetrava nelle mie narici di fanciullo, scavando la smania per la selvaggina di pelo.

Nel razzolare nel giardino con i cuccioli di Diana…

… prolifica setter bianco-nera, ho imparato a conoscere e ad amare i cani da caccia. A quei tempi le Prealpi pullulavano di starne e papà con Peppi, o Maggioni, signorotto locale, gareggiava nella caccia alle beccacce e alla selvaggina nobile stanziale, destando l’invidia dei pochi cacciatori del paese.

Non avevo ancora l’età della ragione…

… e già distinguevo gli insettivori dal codibugnolo, al pettirosso alle cincie e poi le pispole e le allodole e poi i tordi e le tortore e in ultimo le starne, le quaglie, le beccacce e il gallo forcello, che mio padre portava giù dalle Alpi. Papà mi metteva tra le mani i selvatici, mi insegnava a trovare e a staccare la piuma del pittore dalla beccaccia, a distinguerne l’età dalla costa delle remiganti primarie, a losanghe o tutte bianche. Guardando e toccando le prede aspiravo il profumo tenue della quaglia, quello forte della penice e quello intenso della beccaccia. Nelle sere d’inverno e in quelle precedenti l’apertura, tra bossoli, misurini, pallini, borre, orlatori sparpagliati sulla tavola, prendendo scapaccioni per le irrefrenabili esuberanze, le mie mani venivano impregnate dall’odore della balistite e della Walsrode, cui si aggiungeva quello delle munizioni e del piombo. Aspiravo il profumo della polvere sparata uscente dai bossoli pronti per il ricaricamento.

Nella piazza vecchia del paese…

… di fronte alla nostra casa, c’era il caffè dei “brutti e buoni”, il Veniani. Giuseppe, il proprietario, era fanatico per la caccia e mi raccontava episodi che riguardavano la sua passione. Là, il Zanolini, armaiolo e tiratore di pedana, mi aveva insegnato a imitare il canto delle allodole e delle quaglie, il Maggiori il fischio di tutti gli insettivori di bosco da cacciare con la civetta e le panie vaganti, e il Crespi il modo di costruire gli zimbelli. Maestri, abituali frequentatori del caffè dei cacciatori.

Apprendevo tutto di ornitofilia in giardino, quando aiutavo a pulire le gabbiette con i fringuelli, cardellini, tordi, merli, montani, lucarini e ciuffolotti. Seguivo papà ogni volta che scendeva nel sottoscala per portare il cibo alla civetta, la quale, guardandomi con gli occhioni aperti, mi eccitava facendo il gioco dell’abbassarsi e alzarsi di colpo.

Mi sono impregnato del puzzo della melma, libero fra i falaschi e i canneti del lago, curando per ore il tarabusino che attraversava da un canneto all’altro.

Ho aspirato l’odore dei boschi a primavera, alla ricerca dei primi nidi di merli, quelli di marzo, quando ancora non vi sono le foglie sugli alberi e le uova vengono deposte nei buchi dei tronchi, l’odore dei campi d’estate inebriandomi del canto delle allodole, il sapore della notte sentendo nel giardino il canto dell’usignolo, nei boschi d’autunno portando sulle spalle le panie imitando il canto del pettirosso, delle cincie, del codibugnolo, impiastrandomi le mani e i vestiti di vischio.

Odori acri e dolci, sensazioni violente e tenui che mi sono entrate prima nel fisico per trasmigrare poi nello spirito.

Odori, suoni, visioni, fatti, personaggi che hanno impregnato i miei anni infantili, un pourpurrì venatorio che aumenterà con il progredire degli anni.

I cacciatori vittime delle sensazioni della caccia sono privilegiati che vivono in un mondo di purezza e di colori intenso, sconosciuto e vietato ai più.

La fanciullezza

Fin da fanciullo maneggiavo le armi accanto a mio padre, quando le toglieva dalla rastrelliera posta nel salone per spolverarle e pulirle, specialmente all’interno delle canne. Ricordo la sua quasi religiosità mentre accarezzava lo Scott che aveva comperato a Londra in Piccadilly Street, o il Tire Fire acquistato a Milano da Pino Buttafava, titolare della più prestigiosa armeria milanese, famoso cacciatore e tiratore potente di pedana, che aveva vinto due volte il Gran Prix di Montecarlo al piccione, che a quai tempi era il campionato del mondo di tiro al piccione. Poi il Torcione pesante dalle canne lunghissime, che colpiva selvatici a distanze quasi impossibili, poi il Browning a cinque colpi a mollone, gioiello di pochissimi, primo automatico dell’epoca, infine le doppiette: quella strozzata e quella a canne cilindriche e il calibro 16 e poi il 28, con il calcio svuotato inferiormente e solo con una forma idonea all’imbracciatura, che si piegava in due tanto da poter essere alloggiato nella cacciatora quando si andava a caccia di selvaggina minuta.

Non ricordo di avere imparato a sparare

Nella nebulosità delle mie reminiscenze infantili rimangono i fuciletti regali di Natale e mi pare di essere stato tiratore fin dalla nascita. Sono invece ben impresse nella mia mente le botte di papà quando si accorgeva che era sparito dai nascondigli più impensati l’otturatore del flobert calibro 6. Spendevo tutti i miei soldi delle paghette settimanali nell’acquisto di cartucce a palla e a pallini che la Soresina, titolare della drogheria con licenza di vendita di polveri e cartucce, mi vendeva di nascosto dai genitori e dalle autorità. Quando non arrivavano le botte di papà c’erano quelle di nonna Adele e di mamma Maria, le quali si accorgevano che il flobert era in attività perche le forbici di casa avevano le punte rotonde e smussate. Questo perché l’estrattore, da noi costretto ad un ritmo di estrazione continuo, si era smussato e non rimuoveva più il bossolo. Bisognava far leva con la punta delle forbici tra l’imboccatura inferiore della canna ed il fondello del bossolo. L’estrazione forzata aveva smussato anche il lato inferiore della canna e ben presto, allo sparo, le polveri combuste uscivano dietro l’otturatore, annerendo e bruciacchiando lo sparatore. Anche Eustachio, mio fratello maggiore, più vecchio di tre anni e che mi precedeva (ma io lo seguivo a ruota…) in ogni azione di caccia e/o tiro al bersaglio illegali, aveva la mania delle armi. Intorno al 1920 il Paese era pieno di bossoli e proiettili che i soldati avevano portato a casa a ricordo del fronte. Predominavano quelli del fucile 1891.

Costruivamo rudimentali pistole…

… modellando un pezzo di legno duro a foggia di calcio di pistola sul quale incastravamo un bossolo vuoto (che costituiva canna e camera di scoppio) del ‘91 mediante un filo di ferro su un’incanalatura superiore a forma di culla. Estratta dal bossolo la capsula sparata la pistola era fatta. Formato quindi un incavo alla base del foro generato dalla rimozione della capsula, vi si schiacciava un poco di polvere, si immettevano, senza borra, alcuni pallini nel bossolo e l’arma era pronta per lo sparo. Con uno zolfanello lo sparatore accendeva la polvere pressata contro il foro del proiettile ed il colpo partiva. A queste esperienze balistiche è legato un incidente. Caricata la pistola Eustachio ed io, per conoscere la forza di penetrazione dei pallini, avevamo preso un’asticella di legno compensato di mezzo metro quadrato. Io reggevo l’asticella con due mani di fronte alla mia faccia a protezione del volto; Eustachio doveva colpire l’asticella stessa in centro; aveva già acceso quattro o cinque volte la miccia costituita di polvere, ma questa bruciava senza che lo scoppio avvenisse. Stanco di tenere l’assicella alzata a protezione del viso, ma più che altro curioso di sapere perché il colpo non partisse, sporsi la resta dalla protezione. In quell’attimo avvenne il botto, seguito da una nube di polvere e fumo nero. Il bossolo del ’91, che in testa si restringeva, era scoppiato, mentre un parte dei pallini, per fortuna con poca forza di penetrazione e senza colpire gli occhi, mi arrivava sul viso assieme alla polvere trasformandomi in un negro.  Molto spavento, numerose bruciature e piccole ferite, ma per fortuna nulla di grave.

Teatro delle nostre imprese…

… giovanili erano il giardino, l’orto e il pollaio della casa, sita nel centro del paese con facciata sulla piazza. Le antiche porte di legno del muro di cinta del giardino, quasi tutti i muri, oltre a vecchi tronchi di faggi e noci, ancora oggi portano i segni delle pallottole del 6 e del 9. Qualsiasi cosa rappresentava per noi un bersaglio. I passeri, tanto numerosi ovunque, erano rarissimi nel raggio di cinquanta metri dal nostro raggio d’azione. Per anni estinguemmo le lucertole. Contro i gatti era bandita la “guerra santa” fino al giorno in cui avevamo trovato sbranato il cardinale dal ciuffo rosso, sultano assoluto nella grande voliera piena di uccelli di ogni specie. “Il cardinale no, non me lo dovevano uccidere!” esclamò nostro padre. L’uccello, allora a noi sconosciuto, lo aveva portato da Miami mio padre, quando si era recato nei Caraibi a visionare i terreni e le case ereditati dall’antenato Don Juan Ponce de Leon, che nel 1521 aveva scoperto, nel giorno di Pasqua, la nuova terra chiamandola Pasqua Florida. Altri terreni da visionare portarono mio padre anche a Portorico, ove l’antenato era stato il primo governatore Spagnolo e ad Haiti, l’antica Hispaniola, dove erano vissuti gli ultimi figli del conquistador. Da allora anche i gatti giravano ben alla larga dal nostro campo d’azione.

Un tiro di carabina fece scalpore

In giardino, assieme ad Eustachio e Rico, il figlio del giardiniere, gareggiavamo a centrare una scatola di latta appoggiata sopra una pietra. Spara Rico, la scatola vola via e nello stesso istante si ode un urlo di donna provenire dalla casa. Accorriamo. Alla sorella di Rico, Jole, fiorente bellezza nota per la sua avvenenza, che si tratteneva in casa ad uscio aperto in sollazzevole compagnia con il fidanzato, un tale Brivio, si era strappata la camicetta mettendo a nudo il seno. Era successo che la pallottola, rimbalzata su una pietra, era penetrata, fortunatamente solo per un centimetro, nella mammella sinistra, sotto il capezzolo, rigandole di sangue il petto. Fortuna volle che a sparare fosse stato Rico, suo fratello. La deliziosa visione del giovane seno della Jole, nudo fino all’arrivo del dottore, non fu sufficiente ad attenuare lo spavento e la preoccupazione per le conseguenze che vennero introdotte: non meno di tre mesi di abbandono di ogni attività sparatoria.

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1 Comment

  1. tito

    Ho avuto il piacere di conoscerlo e parlarci un paio di volte a Jesolo alla mostra scambio ed anche in età avanzata era uno spasso ascoltarlo ed imporsi con il suo carattere. Ho una dedica su un suo libro ed un ricordo del suo modo di fare. Avvocato ho un suo libro desidererei un autografo, dammi il libro, lo porto domattina ora ce l’ho in albergo. Vieni presto perché poi io parto chiaro. 🙂 , il giorno dopo lo portai mia moglie gli diede una penna e chiedendosi il nome in quanto il cognome lo conosceva scrisse: a tito mariotti beccacciaio potente. Mia moglie disse la penna la devo conservare, lui perché gli el’ha data il papa?? No perché ci ha firmato Lei.

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