Bartolomeo Cavaglià e i suoi cuccioloni in addestramento

Il dressaggio del cane è un argomento per specialisti (i dres­seurs in Italia sono numerosi e preparati), io non ho nè titoli nè presun­zione dí dire cose nuove: posso parlare solo dell’iniziazione alla caccia del cucciolone.

Come cacciatore cinofilo ho ormai 60 anni di esperienza e quindi ho maturato alcune opinioni anche perché negli ultimi 30 anni, ho avuto il privilegio di cacciare in riserve esclusive, le starne nella Voivodina, in Polonia, i coturnici nella Bosnia Erzegovina e ancora starne in Ucraina (estensioni sconfinate, selvaggina scaltra e naturale).

In queste palestre insostituibili ho potuto sperimentare, sui cani da me allevati, molte opzioni sui metodi di addestramento e sul ti­rocinio pratico dei cuccioli.

Occorre preliminarmente chiarire che qualunque addestra­mento può ridurre l’esuberanza, ma non sopperire a deficienze.

II cacciatore medio è bene che scarti i soggetti troppo esu­beranti o di carattere difficile, che solo un esperto professionista può ri­durre o “tenere in mano”.

Aggiungo che spesso il cane affidato per il dressaggio ad un professionista, che è obbligato dal tempo ridotto a valersi del metodo “punitivo”, può “personalizzare” i castighi imputandoli non al suo com­portamento, ma alla persona che li somministra, con la conseguenza che, tornando dal padrone, può “dimenticare” tutto.

Poiché per fare un buon cane occorrono circa 2 anni, consi­glio ai cacciatori dí scegliere un cucciolone che fin dall’inizio si dimostri equilibrato nei carattere e dotato di buone qualità naturali.

Un soggetto di queste caratteristiche può cacciare insieme ad altri cani senza fare troppi guai, e nello stesso tempo imparare il “mestiere”. E’ mia opinione che il cane da caccia dotato di buone qualità naturali, non ha bisogno di “addestramento” in senso tecnico (come è necessario per il cane da gara) ma solo di “incontrare” selvaggina na­turale: questo è l’unico modo che conosco per “imparare” a cercare e trovare i selvatici.

Nei miei verdi anni l’addestramento del cucciolone si con­centrava soprattutto sull’obbedienza ai comandi perchè, in generale, la “ferma” era allora poco solida ciò obbligava a “tenere in mano” il cane.

La selvaggina era abbondante, e tutti i cuccioloni, pur di qualità più scadente di quella attuale (tra gli inglesi i soggetti incorreg­gibili erano frequenti, e questa è stata la fortuna dei continentali), nelle prime due stagioni di caccia accumulavano tutta l’esperienza necessa­ria.

L’etologia ha accertato che i primi 24 mesi della attività ve­natoria di un cucciolo sono fondamentali, perché “formativi” e quindi at­ti a determinare la sua “futura qualità”: sembra che si verifichi una si­nergia tra stimolo delle esperienze e accrescimento del patrimonio neuronale.

E’ dunque importante che le prime esperienze siano svolte in funzione del tipo di caccia congeniale al padrone (terreno e selvaggi­na), perché ciò “costruisce” il cane “su misura”, cioè perfettamente adatto alle future condizioni della caccia chedovrà praticare.

Ciò che mi preme sottolineare è l’assoluta necessità che il cucciolo nei primi due anni possa fare esperienza su selvaggina natu­rale.

Insisto sulla selvaggina naturale, perchè questa insostituibile fonte di esperienza è determinante nella strutturazione del talento ve­natorio del cane.

Se il cucciolone nel suo primo biennio conosce prevalente­mente la selvaggina di allevamento, che è confidente, ignara delle tec­niche di difesa, allocata in ambiti circoscritti, pressochè incapace di ali­mentarsi, di riprodursi e financo di sopravvivere all’inverno, apprende solo a perlustrare diligentemente il terreno, “fermando” quello che in­contra sul suo percorso (come spesso avviene nelle gare).

Ma una tecnica venatoria siffatta è “elementare” e insuffi­ciente, perchè la perlustrazione “meccanica” del territorio è inadeguata alla “vera” caccia, che si svolge su grandi estensioni, con selvaggina naturale scaltra, diffidente, irregolarmente distribuita, che non si incon­tra se non è “cercata” con sagacia e talento, selezionando i terreni mi­gliori da esplorare, sfruttando tutte le astuzie del “mestiere”, eludendo la strategia difensiva dei selvatici.

Dal postulato deriva il corollario che chi vuole utilizzare il ca­ne in prevalenza su una specifica selvaggina, è su questa che dovrà iniziare il cucciolone, perchè solo a questa condizione lo “specialista” può diventare tale.

Naturalmente ogni medaglia ha il suo rovescio: lo “speciali­sta” se è in grado di dare ineffabili emozioni nel suo campo, su selvag­gina che non conosce sarà quasi sempre mediocre.

In sostanza non esiste il cane così versatile da essere supe­riore in tutte le specialità.

Molti si chiederanno come mai dò tanta importanza al primo biennio di esperienza per ia formazione del cane, mentre prima questa circostanza veniva trascurata.

Il fatto è che nei decenni passati “l’habitat” e la fauna erano molto diversi, e i cacciatori erano più interessati al carniere (in genere facile) che al lavoro del cane.

Ricorro non ai sentito dire, ma alla memoria.

Dal 1945 al 1955 si cacciava tutti i giorni dal 15 agosto al 31 dicembre, in ogni uscita di tre ore un cucciolone poteva fare in media da 2 a 5 incontri: la “maturazione” in due stagioni era sicura.

Poi l’aumento dei cacciatori ha impoverito il terreno libero e la selvaggina naturale è rimasta solo nelle riserve di caccia, vere e pro­prie oasi almeno fino al 1975.

La politica venatoria e gli oneri sempre più gravosi sulle ri­serve private, oltre all’antropizzazione delle campagne, hanno causato ( da 30 o 40 anni) l’estinzione della selvaggina stanziale naturale.

Oggi, chi nel Lazio si dedica solo alle beccacce (con le qua­glie unica selvaggina rimasta), in una stagione fortunata ne può incon­trare da 10 a 30: troppo poco per lo sviluppo venatorio del cucciolone. Secondo la mia esperienza, un cucciolone per “maturare” (nel senso sopra spiegato) deve poter fare almeno 4/5 incontri in ogni uscita, su selvaggina adatta, per almeno 30/45 giorni in ognuna delle due prime stagioni venatorie: condizioni irrealizzabili in Italia.

Ritengo che la mediocre resa dei cani da caccia abituati alle “riserve” (e pur dotati di buona qualità) allorché si cimentano con la sel­vaggina naturale (beccacce, coturnici, starne in pianura o quaglie) di­penda soprattutto dalla difficoltà di far loro incontrare selvaggina natura­le nel primo biennio di attività.

Un buon cane addestrato su selvaggina di allevamento, ra­ramente sarà altrettanto buono su selvaggina naturale.