foto di Mario Salomone

(Le affermazioni degli anticaccia vanno esaminate una per una)

Dopo aver tratteggiato cosa la caccia “non è”, viene la parte più difficile: spiegare in che consiste.

Nella caccia l’attività materiale visibile dall’esterno non aiuta a capire, perché è solo il veicolo che innesca nell’animo del cacciatore quella partecipazione coin­volgente ed emotiva che è l’essenza dell’attività venatoria.

La caccia appare essere una serie coordinata di atti materiali tutti funzio­nalmente connessi, e perciò singolarmente privi dì autonomia e di significato: ma l’e­mozione finale che prova il cacciatore, è la metabolizzazione delle singole fasi com­portamentali assorbite da una dimensione rituale, nella quale i simboli sostituiscono la realtà.

L’attività venatoria è evocazione metaforica e liturgica (accessibile solo agii iniziati, e inaccessibile ai profani), di un universo occulto antropologicamente connaturato alla natura urbana.

La relazione tra il gesto e il significato simbolico che esso evoca, ricorre nelle liturgie religiose: chi è cattolico sa che nei riti religiosi ogni gesto, ogni atto del celebrante evoca in modo preciso un evento spirituale, religioso o evangelico che è noto e suggestivo per tutti i praticanti ed astruso per i miscredenti che ne ignorano il senso.

Perciò come spiegare ai non iniziati che la caccia è passione, sentimento, emozione, pathos, folklore, appagamento nel recuperare la sintonia con un istinto ancestrale, evocazione delle indecifrabili ma suggestive allusioni di una remota vita autentica, lontana dalle parossistiche pressioni di una routine quotidiana ormai così povera di realtà?

Lontano dalla città nel silenzio della campagna, il cacciatore torna ad ascoltare il respiro profondo della terra e a percepire la antica sapienza della natura, con le sue leggi, intrecci, nessi, significati e pregnanze alle quali l’istinto primordiale è sensibile. Si ritrova il senso del tempo legato alle ore di luce; la dimensione dello spazio misurata sulla forza delle gambe; si riscoprono i ritmi fisiologici della fame, della sete, del riposo, del sonno, del freddo, del caldo.

La caccia, nell’animo dei cacciatori, è un archetipo dell’essenza della vita, metafora dei cicli naturali (vita-morte e predatore-preda) che non sono una invenzio­ne umana; è la simulazione più affine al più profondo degli istinti, e perciò sotto que­sto aspetto è l'”istinto degli istinti” e il cacciatore è il più autentico figlio della natura, della storia, della tradizione.

Molte attività umane danno emozioni solo a chi le pratica: il fascino delle escursioni in alta montagna, la suggestione dell’esplorazione subacquea o della na­vigazione, le emozioni dei grandi spettacoli naturali, possono essere compresi solo da chi li ha provati, mentre restano inspiegabili agli indifferenti: così anche la caccia è un mondo ignoto per i non cacciatori.

I non cacciatori stentano a capire che la preda, nell’esercizio venatorio, non è percepita come un essere vivente, ma che io sparo non è che un gesto richie­sto dal protocollo venatorio.

Solo chi è ammalato di ideologismo e integralismo ha difficoltà a capire che è l’intento psicologico dell’agente a qualificare gli atti materiali: l’uccisione di un uomo è ripugnante se fatta da un assassino ma è lecita e accettata se fatta da un soldato contro il nemico perché lo stato di guerra dequalifica l’evento.

Spesso l’esercizio venatorio si inizia da giovani, sotto la guida di cacciatori anziani o di familiari, e queste frequentazioni rinsaldano una continuità generazio­nale nelle abitudini e nelle tradizioni, in un contesto di stabilità che concorre alla for­mazione di armonia della personalità, e quindi di equilibrato senso della vita.

Da ultimo, ma non per ultimo, la comunanza di sentire trova un’eco signifi­cativa nell’amicizia tra cacciatori, che crea dei sodalizi che solo la morte può spezza­re.

Coloro che vivono il mondo della caccia sanno che tra i compagni di cac­cia si radica, quando vi sia un background di valori condivisi, un vincolo straordinario e diverso da ogni altro. Come l’amicizia tra commilitoni, che insieme hanno affrontato, scampan­doli, rischi mortali, costituisce un rapporto speciale, insensibile al tempo così il lega­me speciale tra compagni di caccia acquisisce nella vita di entrambi uno spazio pe­culiare ed una fonte di gratificazione ineffabile.

Con il compagno di caccia esiste una sintonia che non ha bisogno di pa­role: nella suggestione dei rito venatorio si condividono gli echi di quel remotissimo tempo in cui dallo spirito di sacrificio e dall’altruismo di ciascuno dipendeva la vita di tutti.

Chi non ha avuto questi privilegi non potrà mai capire cosa ha perduto.

Un tema che richiederebbe una trattazione a parte è la cinegetica che ar­ricchisce l’esperienza venatoria di un immenso valore aggiunto, perchè il lavoro del cane concorre ad accrescere il coinvolgimento del cacciatore nel compito di indivi­duare la selvaggina creando tra i due una intimità speciale densa di ineffabili echi.

In una società democratica e libera, le opinioni individuali, i gusti, le abitu­dini, i principi morali, sono credenze da valutare in termini di preferibilità soggettiva: meritano rispetto ma esigono rispetto a chi ha convinzioni diverse.

CACCIA E MAGGIORANZA

Secondo i sondaggi degli anticaccia, poiche la maggioranza dei cittadini è contraria alla caccia questa dovrebbe essere vietata.

La caccia, come tutte le tradizioni, è il distillato di una ripetizione di atti le­gittimati dalla tradizione.

Quando la tradizione è consolidata viene a far parte del costume di una società; e per conseguenza il suo esercizio diviene un diritto di libertà che, come ta­le, non può dipendere dal consenso della maggioranza ma, come tutti i diritti, ha co­me unico limite la lesione della libertà altrui.

diritto di ciascuno di poter realizzare nel modo più confacente il comple­tamento della persona umana anche nel tempo libero, rientra tra le tutele costituzio­nali, che riguardano soprattutto le minoranze.

A conferma di ciò si provi ad immaginare cosa potrebbe accadere se fos­sero legati alla approvazione della maggioranza i diritti delle minoranze etniche, reli­giose, sociali, sessuali, ecc.?

O se dipendessero dalla maggioranza alcune attività di élite (distanti dalla sensibilità della maggioranza, che pure ne sostiene gli oneri) quali la musica classi­ca, l’opera lirica, il teatro di prosa, il balletto classico, ecc.?

In tema di diritti individuali, il criterio della maggioranza è inappropriato, perché la tutela delle minoranze è un valore costituzionale.

CONCLUSIONE

Giudicare un’attività radicata in millenni di storia e alla quale l’umanità de­ve tanto, con un criterio astorico, da parte di chi è vissuto solo in ambiente urbano, equivale negare l’importanza di quell’aspetto antropologico dell’uomo, che è indi­spensabile per capire chi siamo e qual è il senso della vita.

L’ostilità alla caccia in realtà è solo dettata dall’intolleranza ideologica (in­fondata) verso ciò che non si capisce, e la storia insegna che il tasso di intolleranza è in genere proporzionale al tasso di ignoranza, perché solo quest’ultimo genera cer­tezze assolute.

L’integralista si sente affrancato dal dover fornire giustificazioni (che lo ob­bligherebbero ad approfondire la conoscenza) e quindi elude il predicato “vero-falso” di ogni confronto dialettico: egli considera che ciò che è fuori dalle sue ferme convin­zioni stereotipate non può che essere sbagliato e quindi deve essere proibito.

Nel concetto massimalistico il “peccato” deve essere anche “reato”, e il “peccatore” che non si converte va eliminato. Ma se si lascia spazio agli integralisti ideologizzati, si spalancano le porte ad una società di barriere e pregiudizi, alla non accettazione del diverso; le guerre et­niche e di religione, i gulag, gli stalag, i kamikaze, gli attentatori suicidi, gli stupri e le pulizie etniche, sono lì a ricordarcelo!

Invece la vita di una democrazia liberale si deve fondare sulla tolleranza, e la tutela delle minoranze è la cartina di tornasole di una società liberale.