Ras di Domenico Pensa

La struttura dell’intelligenza del cane basata sulla memoria e su eventi connessi da un rapporto di causa ed effetto. La facilità d’incontro come capitalizzazione di esperienze venatorie.
La “facilità d’incontro” è qualità irrinunciabile del buon cane da ferma che scaturisce soprattutto dall’intelligenza. È infatti l’intelligenza che consente di capitalizzare l’esperienza venatoria e di trarre insegnamenti per aumentare le probabilità di reperire la selvaggina. La mente del cane non ha capacità deduttive e coordina gli eventi registrati nella memoria secondo un rapporto di causa ed effetto che sarà tanto più proficuo quanto più sviluppata è la sua intelligenza.

In questo contesto, nel cane è anzi estremamente difficile distinguere la memoria dall’intelligenza, tanto da indurci ad assimilare la prima come presupposto inscindibile della seconda. Avviene quindi che quanto più il cane è intelligente, tanto più tesorizza le esperienze funzionali e cioè – per esempio – la maggior facilità di avvertire la selvaggina cercando a favor di vento. Ed infatti è solo l’esperienza e l’intelligenza del buon cane ad insegnargli a sfondare la cerca nel vento contrario per quindi tornare verso di noi con il favore del vento. Ed ancora al buon cane non è necessario insegnare la cerca incrociata, proprio perché egli sperimenta autonomamente che quel modo di esplorare il terreno è il più funzionale per restare nel vento. Noi possiamo tutt’al più incoraggiarlo in questo tipo di cerca, ma l’esperienza sarà la sua vera maestra. E che differenza fra la cerca incrociata ispirata dall’intelligenza, rispetto a quella insegnata a suon di collare elettrico!!! Nel primo caso l’incrocio non impedisce al cane di andare ad esplorare le rive, gli sporchi e gli avvallamenti più promettenti anche a costo di interrompere la geometria della cerca; nel secondo caso si ha invece un robot che incrocia passivamente solo perché così gli è stato imposto e che associa il percorso alla punizione che riceve ogniqualvolta si prende delle libertà. Il primo è un cane che utilizza la sua intelligenza per ottimizzare la “facilità d’incontro”. Il secondo è un cane con alta sopportazione degli stimoli negativi e la cui “facilità di incontro” è certamente scarsa (malgrado i possibili CACIT scritti sul suo libretto di lavoro). Sta di fatto che più il cane è intelligente e meno è disposto a subire condizionamenti robotizzanti. Naturalmente l’incontro è solo la premessa dell’esperienza venatoria, a cui devono far seguito altre esperienze positive in termini di ferma da cui far scaturire il gratificante effetto dell’abbattimento della selvaggina. Ciò rende fondamentale il ruolo del cacciatore per far registrare nella mente del cane che la “facilità d’incontro” non è fine a se stessa, ma strumentale al fine ultimo della caccia. Quindi l’eccessivo ricorso a turni d’allenamento senza abbattimento di selvaggina è negativo ai fini della costruzione di un buon cane da caccia, soprattutto nel periodo della sua formazione. In Polonia i cuccioloni vanno portati a caccia, non per turni di allenamento; ed in Istria io alternavo gli allenamenti primaverili con l’occasionale abbattimento di qualche starna posata allo scopo sul terreno. La giustamente decantata potenza olfattiva di un cane è funzionale non tanto alla “facilità d’incontro”, quanto alla sua favorevole conclusione. Il che significa che possono esserci cani con “facilità di incontro” che però – non essendo assistiti da una buona sensibilità olfattiva – tendono poi a sfrullare. Ma anche in questi casi è generalmente l’intelligenza che pone rimedio, compensando l’eventuale naso tendenzialmente corto con una maggior attenzione e prudenza nella cerca. In tema di “facilità d’incontro” e del rapporto di causa ed effetto fra le esperienze maturate da cani intelligenti, citerò un caso inverso che non dimenticherò mai. Tanti anni fa avevo ritirato una bella Bracca italiana dotata di un ottimo movimento e di un’importante presa di terreno: si chiamava Dora ed aveva circa tre anni. Inspiegabilmente però non riuscivo a vederla fermare … anzi, non l’avevo mai vista neppure incontrare. Un giorno allora la misi sotto il controllo di una lunga corda di ritegno e la indirizzai all’incontro su di una starna appositamente posata. Ebbene, la cagna avvertì la starna ad una distanza ragguardevole ed immediatamente cambiò direzione per evitarla, evidentemente memore degli interventi punitivi inflitti dal suo precedente proprietario per ottenere la correttezza al frullo. Era incredibile l’abilità di quella cagna nell’evitare l’incontro!. Chiarito quindi il concetto della facilità d’incontro, cos’è allora il “senso del selvatico”? Nella sua accezione realistica è un sinonimo della facilità d’incontro, cioè un modo diverso per chiamar la stessa cosa. Esiste però anche un’accezione “miracolistica” del “senso del selvatico” sostenuta da coloro che – non capendo un accidente – un accidente sanno spiegare. E sono letteralmente la negazione della cultura cinofila. Secondo questi Soloni il “senso del selvatico” è una specie di sesto senso, inspiegabile e di cui nulla si sa circa la provenienza genetica o il suo meccanismo di trasmissione. C’è … e basta! Dell’esistenza di questo miracolistico sesto senso anche recentemente si è reso interprete un braccofilo che sostiene in un suo articolo l’esistenza di soggetti inspiegabilmente capaci di “individuare immediatamente il punto di rimessa (della beccaccia), ma non nei boschi frequentati abitualmente, ché lì è solo l’esperienza maturata, ma nei boschi non conosciuti. Omissis. Sembrava che un filo invisibile (la) legasse (la cagna) alle beccacce, alzava la testa e ti portava dritto sulla rimessa, una cosa che ancor oggi mi fa emozionare, ovviamente parlo di prima rimessa, perché se gli involi cominciano ad essere più d’uno allora son dolori”. L’autore dell’articolo ha anche ammesso che nessun’altra sua cagna, anche se discendente da quella tanto apprezzata Bracca, ebbe mai più quella dote miracolosa. Che dire? Se si tratta di sesto senso, perché funziona solo sul primo involo e non sulle successive rimesse? Se si tratta di sesto senso, perché funziona solo per le beccacce e non per altra selvaggina? L’autore certamente saprà che soprattutto la prima rimessa avviene generalmente a distanza relativamente breve, collocata un po’ a destra o un po’ a sinistra rispetto alla direzione d’involo, stante il fatto che la posizione oculare della beccaccia le fa identificare meglio le rimesse poste a lato. In gergo si dice infatti che nella rimessa la beccaccia fa “il sette”. Quindi, anziché invocare miracolistiche doti, non è plausibile che quella cagna intelligente e dotata di buona memoria, dopo aver sperimentato queste circostanze quattro o cinque volte di fila, abbia imparato a trovare con relativa facilità la rimessa della beccaccia anche in boschi a lei sconosciuti?. E perché mai solo quella sua cagna era capace di tali prodezze? Forse perché era più intelligente, o forse perché – più plausibilmente – aveva avuto modo di maturare esperienze che le altre cagne dell’autore invece non hanno potuto capitalizzare. Ma tant’è … il mistero dei comportamenti inspiegabili è più affascinante e soprattutto più facile da “non spiegare”. L’interpretazione miracolistica del “senso del selvatico” è anche spesso invocata nei cani da beccaccini (o meglio in alcuni di loro). Ci sono infatti casi di cani che avventano e iniziano la filata per concludere la ferma a distanze che hanno dell’inverosimile: cioè a centinaia di metri da dove hanno dato segno di aver avvertito il beccaccino. Ricordo un famoso personaggio di Milano il cui cane avventava e lui lo seguiva in bicicletta dalla strada fino a quando finalmente fermava; dopo di che lui lasciava la bicicletta e lo raggiungeva per sparare alla sgneppa. Ed era vero, perdinci!. Il che giustificava la sua convinzione che il suo cane sentisse il beccaccino a centinaia di metri davanti al naso. Com’era possibile? La spiegazione è che il beccaccino predilige terreni “marci” il cui puzzo è avvertibile anche da noi (ed a maggior ragione dal cane a grande distanza). Il beccaccinista quindi sente a centinaia di metri non il beccolungo, bensì la puzza del terreno marcio. Il fatto che poi, giunto in zona, malgrado quel puzzo sappia avvertire l’emanazione del beccaccino eventualmente presente è funzione della eccezionale capacità selettiva del suo apparato olfattivo. Quindi una volta ancora nel “senso del selvatico” non c’è nulla di magico, nulla di misterioso, ma tutto razionalmente e fisiologicamente spiegabile.