Beccacce al crepuscolo

Beccacce al crepuscolo

La necessaria evoluzione del significato moderno della caccia,  coerente con la gestione del patrimonio faunistico. Anche la beccaccia, per raggiungere la notorietà, ha subìto la sorte di quasi tutte le specie animali: è stata ammazzata! E ciò è per lei ancor più vero perché ben pochi si sarebbero accorti della sua esistenza, visto che è crepuscolare ed elusiva, e semmai erano solo i “poveri diavoli” – che fino all’invenzione delle armi da fuoco e della caccia”sportiva” – la prendevano con i lacci per mangiarsela (o più spesso e con maggior profitto per venderla ai signori golosi che da tempo si erano accorti della sua sublimità gastronomica).

Sta di fatto che fino al 1600 circa, nelle arti figurative si ebbero sporadiche sue raffigurazioni poco corrispondenti alla realtà e bisognava cercare le sua immagine nel mucchio di selvaggina buttato sul tavolo di qualche notevole cucina padronale.

Poi sono cominciate tutte le cacce “a tiro” (cioè col fucile) sia con l’ausilio di cani, soprattutto scovatori (*) oppure in battute e molto più diffusamente all’aspetto serale e mattutino come surplus della giornata venatoria, di cui la croule primaverile (cioè l’attesa delle aeree parate nuziali dei maschi) era particolarmente apprezzata, dalla Francia alla Russia attraverso tutti i Paesi centro e nord europei, coincidendo con la stagione post invernale in cui le uscite erano particolarmente invitanti e piacevoli da molti punti di vista. E nessuno faceva caso al fatto che in tal modo si eliminavano riproduttori selezionati, pur colpendo quasi esclusivamente il sesso maschile!

Naturalmente in ciascuna di queste diverse specialità c’era chi eccelleva e quindi aveva occasione di osservare molte beccacce; e se la curiosità ed il desiderio di conoscenza assumevano un ruolo prioritario rispetto all’abbattimento, si materializzava il contribuito ad evidenziare molte caratteristiche comportamentali e di preferenze ambientali della specie.

Indimenticabili descrizioni “di caccia” – e non solo – sono state magistralmente tracciate dalle penne di Tolstoi e Turgenev!

Gli stessi ornitologi che ne parlarono su trattati scientifici erano per lo più anche cacciatori e comunque avevano occasione di avere in mano esemplari morti, salvo poi dover constatare che gran parte di quanto scritto era inesatto o addirittura errato: aumentarono così – praticamente fino dopo la seconda guerra mondiale – anche le conoscenze sull’alimentazione della beccaccia (osservazione dei contenuti stomacali) e la definizione del sesso per autopsia; in alcuni Paesi del nord Europa si cominciarono a inanellare beccacce e quindi a porre le basi per valutare l’età e calcolare la sopravvivenza (e speranza di vita), soprattutto allorché venivano inanellati soggetti nati da pochi mesi (o addirittura giorni).

Solo a partire dai primi anni 1970 presero il via alcune linee di ricerca seria (in Gran Bretagna, in Danimarca ed in Francia) seguite poi da molti altri Paesi, tra cui l’Italia. Comunque i risultati derivavano quasi sempre da beccacce ammazzate e poi, fortunatamente, anche studiate.

Lo studio in natura, su esemplari vivi, ha preso slancio con l’evoluzione delle micro-trasmittenti e il radio-tracciamento dei segnali, ma è stato supportato anche dal moltiplicarsi dell’inanellamento, che ha ampiamente oltrepassato, in pochi decenni, il centinaio di migliaia di beccacce erranti per i cieli e per i boschi d’Europa, partendo da località assai diverse. I soggetti catturati vivi a questo fine hanno contribuito alla conoscenza dettagliata sullo stato, biometria, età ecc. in vari momenti e regioni, tutte tessere valide ad implementarne il quadro e a dare adito a nuove interessanti ipotesi (ad esempio il comportamento delle diverse classi di età ecc.). Addirittura l’analisi del sangue ha bypassato il sistema dell’identificazione del sesso mediante autopsia e lo studio della concentrazione del deuterio (isotopo dell’idrogeno) in poche penne fornisce dati sulle regioni di nascita.

Quindi più notizie …e qualche “ammazzatina” in meno!.

Tuttavia la ricerca ha bisogno di soldi, così come la politica ha bisogno di voti; ed il sostegno all’aumento delle conoscenze attinge al contribuito passionale fornito dai cacciatori (serbatoio di fondi e di voti): il gatto che si morde la coda.

La caduta delle frontiere e la libera circolazione, la facile comunicazione informatica, un deteriore tipo di turismo venatorio organizzato, hanno strumentalizzato la beccaccia, ormai quasi l’unica specie del tutto selvatica sufficientemente diffusa, dando corpo al sogno dei grandi carnieri (massacri) che individua nella quantità delle uccisioni il simbolo di “grande cacciatore” di cui vantarsi! A dire il vero – purtroppo – anche gli specialisti beccacciai col cane da ferma, positivamente scremabili per la loro filosofia, ne sono rimasti contagiati (tranne doverose eccezioni) e, non foss’altro per il “dovere” (la scusa) di servire le ferme dei propri ausiliari, gli abbattimenti da loro procurati si contano numerosi, spesso anche in dispregio (o semplice trascuratezza) dei limiti numerici previsti dalle normative locali (…e per carità di patria tralasciamo di parlare di quanti fanno commercio delle molte beccacce annualmente prese e conservate in capaci congelatori: anche la tecnologia del freddo ha facilitato la loro attività).

La caccia, inizialmente intesa come prelievo finalizzato alla sussistenza vitale, ha in seguito assunto un distorto significato mistico sempre meno realistico, per il quale l’uccisione non può essere passata sotto silenzio; ed infatti i popoli cacciatori, che raggiungevano in tal modo soddisfazioni con risvolti sempre più ludici, sentivano il bisogno di “chiedere scusa” alle Divinità del bosco ed alle prede per averne approfittato, uccidendole: ancor oggi in Mitteleuropa sopravvivono tradizioni che rendono onore alla preda e al cacciatore che l’ha fatta propria (soprattutto per i grossi mammiferi… più accomunabili alla nostra specie!).

Ma la deformazione moderna della caccia ha relegato ai margini questo doveroso “risarcimento” morale, limitandolo tutt’al più a mal riusciti tentativi di miglioramento gestionale della beccaccia (che se non fosse uccisa dalla caccia, non avrebbe alcun bisogno di esser gestita!).

E qui si inserisce come un virus, sottilmente perverso, il noto motto di Malbec, fatto proprio dal Club National des Bécassiers “Cacciare il più possibile, uccidendo il meno possibile”, perché è consequenziale che, se si caccia “di più”, sarà comunque molto difficile riuscire ad uccidere “di meno”. Forse aveva ragione Giancarlo Mancini quando scrisse a mio riguardo “Spanò non è un cacciatore, ma un protezionista!”. Sta di fatto che, malgrado le molte vite che ho insensatamente stroncato nella mia lunga attività venatoria, a me la parola “uccidere” va per traverso (sia che si tratti di passeri o fringuelli, quaglie, forcelli, starne, fagiani, anitre e…beccacce…. e, peggio, lepri e caprioli).

Tornando alla beccaccia, negli ultimi decenni la ricerca ha sempre più utilizzato beccacce catturate vive nelle aree protette, liberandole rapidamente dopo le indagini del caso e dopo averle marcate. Certamente anche questo provoca disturbo e stress agli uccelli, ma è una pratica infinitamente meno pesante della persecuzione prolungata che si verifica in caccia con l’intermediazione di un predatore (il cane). D’altra parte molti bravi ornitologi, a volte anticaccia dichiarati, non sarebbero mai diventati tali se non avessero avuto modo – ed entusiasmo/passione – di spiare e catturare vivi gli uccelli oggetto della loro attività.

Tutto questo ci porta ad una “mistica” della beccaccia.

Ferme restando le piramidi alimentari in cui le prede sono a disposizione dei predatori a conferma delle bio-diversità ed ammessa l’esistenza della caccia, quest’ultima deve però essere ridotta nei modi, nei tempi e nei numeri coerenti con la sua sostenibilità biologica; deve cioè essere riconsiderata la parte “ludica” dell’attività venatoria per ricondurla su di un percorso “virtuoso” nel quale sopravvivano i significati della “cerca” della potenziale preda con la intrigante complicità del cane, svolta in solitario e con un prelievo minimale (non più di un capo al giorno) evitando il disturbo prolungato e ripetitivo in momenti climaticamente negativi (gelo e sedentarietà invernale), con rigorosa e stretta regolamentazione del turismo venatorio.

Si possono cioè tollerare i rituali valori sacrificali della caccia, purché connessi con finalità di conoscenza, destinati all’alimentazione domestica del cacciatore e finalizzata allo sviluppo delle facoltà del nostro cane.

La Morte è una realtà che conclude il dono della Vita, il cui senso non può essere privo di significato e merita un profondo ripensamento che deve andare ben oltre le lacrime di coccodrillo di quando diciamo “vorrei poterle ridare la vita!”: per essere credibili basterebbe –almeno qualche volta!- evitare di premere il dito sul grilletto.

Sarà perché quest’anno non ho sparato nemmeno ad una beccaccia e l’unica è stata l’immagine da sogno ad occhi aperti, apparsami la sera del 20 gennaio alle 17,57, di Lei che saliva dalla valle contro la rossissima linea del tramonto (in Piemonte la caccia era chiusa dal 31 dicembre!).

Credo, che un po’ alla volta, dovremmo pur porci qualche riflessione del genere.

(*) n.d.r.: prova ne sia che il Cocker – cane da cerca – prende il nome da wood-cock, cioè beccaccia.