CopertinaGli anni d’oro

Nel gennaio del 1931 veniva approvato il primo Testo Unico della caccia, che regolava l’esercizio dell’attività venatoria in tutta Italia. L’apertura e l’esercizio venivano comunicati con un manifesto nazionale valido per tutte le province. Con la sola licenza di caccia si poteva sparare dalle Alpi alla Calabria, alla Sicilia, alla Sardegna in piena libertà senza balzelli ad animali che venivano designati in due categorie: selvaggina nobile stanziale e migratoria con l’aggiunta dei nocivi. Andavano fieri i cacciatori che si dedicavano alla stanziale vantandosi eletti, distinti, elevati, nobili nei confronti degli uccellinai, dei vaganti, dei roccolai, dei capannisti, dei becchipiatti, dei migratoristi, considerati i paria della grande passione. Il nuovo Testo Unico creava anche la Zona Alpi, di difficile gestione tra le pretese dei montanari, gelosi del loro ambiente e della loro fauna, e quelle dei cittadini, che pretendevano uguaglianza di diritti.

Il ventennio che va dalla fine della prima guerra mondiale all’inizio della seconda rappresenta l’ultimo periodo aureo della caccia italiana. In terreno libero abbondavano starne e lepri, ultima progenie nostrana prima delle immissioni straniere, mentre non era ancora apparso in forma popolaresca il fagiano, sconosciuto anche nella maggior parte delle riserve, ripopolate di strane e lepri.

I reduci dal fronte, dopo la vittoria del 1918, si sentivano tutti guerrieri. Il fronte aveva abituato anche i più riottosi a maneggiare il fucile e non furono pochi coloro che chiesero la licenza di caccia per continuare a sentirsi guerrieri per il solo fatto di portare un’arma sopra la spalla.

Ho avuto la fortuna di vivere la mia gioventù durante questo favoloso periodo venatorio. Allora l’apertura il primo di agosto e la chiusura l’ultima domenica di aprile, senza interruzioni, con la possibilità di cacciare a seconda del tempo, del passo e dei vari sistemi di esercizio necessari ai diversi tipi di caccia. Li praticai tutti. Cominciavo ad agosto a quaglie e starne con il cane da ferma nelle campagne di Brebbia verso il lago Maggiore e sulle colline dell’Alto Verbano; non disdegnavo la caccia vagante alle tortore, ai merli e alle gazze, con scorribande fra i prati ai primi nugoli di allodole; partecipavo alle battute con i segugi sul monte ai piedi del paese, attento alle urla della canea, nella speranza che portasse la lepre verso il mio appostamento; in ottobre e per tutto novembre era la regina che mi affascinava sopra tutti i selvatici. Le beccacce arrivavano numerose sul grande massiccio del Campo dei Fiori, alle cui prime salite si trovava il paese; la regina saliva dalla piana, ove aveva pasturato durante la notte nei prati, per posarsi nei boschi della montagna, ove fra boschi di ogni specie di alberi, ma soprattutto nelle vallette umide e fresche trovava riposo e pastura diurna dalla fornitura di cibo prodotto dal terreno, con vermi, lombrichi, lumache e larve. Scarpinavo da mane a sera e avevo imparato a conoscere i luoghi ove ero certo di trovarla, perché sapevo che preferiva il sottobosco di frassini, castagni, faggi, ma soprattutto di robinie. Arrivavo anche in cima al monte, sui mille metri, ove scovavo uno dei pochi branchetti di coturnici, oggi scomparsi più che per lo sterminio della caccia, per la semina dei pini che hanno coperto i prati liberi e le pietraie ove la regina delle rocce amava cerleccare.

Dalla darsena in muratura, sulla sponda del lago vicinissimo alla casa avita, partivo per le mie scorribande lacustri con la barca o il barchetto da pesca, per raggiungere gli appostamenti nascosti nel folto dei canneti, oppure con la spingarda, per palettare su tutto l’ampio specchio d’acqua; dal lago raggiungevo le paludi della Brabbia o il laghetto di Bardello, per gustare il gnech saettante dei beccaccini.

Il giovedì e la domenica erano riservati alla riserva di Tradate, doviziosa di starne e lepri, con mio fratello e con mio padre, soci della concessione. La quota prevedeva per ogni uscita due lepri e tre starne per socio; mio fratello ed io camminavamo da mane a sera, fucile a bracciarm, con il risultato di ponderosi carnieri: sei lepri e nove starne per ogni uscita, perché completavamo la quota anche con i vuoti che avrebbe lasciato papà.

Nonna Adele cucinava una sola lepre all’anno, perché preferivamo i succulenti sughi di quaglie e beccaccini.

Il giorno dopo le battute, mio padre portava il grosso bottino di lepri e starne all’eden gastronomico di Varese, il lussuoso negozio che ammanniva cibi ricchi e rari sotto i portici della città giardino. Il compenso non era denaro, ma leccornie che per tutto l’anno trionfavano nella nostra mensa: caviale e aragoste, patè di uccelli, salse russe nordiche e tropicali, formaggi rari, salumi di gran pregio.

Ho avuto la ventura di vivere intensamente i vent’anni del periodo aureo della nostra caccia, affinando sistemi ed esperienze nella ricerca di migliorare sempre più, e devo a questa attività se sono diventato un cacciatore esperto e valente.

Orge di fatiche e riposi, di gioie e delusioni, di fucilate sempre più veloci e precise, di scarpinate nei coltivi e nei boschi della piana, di arrampicate sul grande monte che sovrastava il paese, di stivavate nelle paludi, di remate sulle barche e di palettate con la spingarda.

A 200 metri dalla casa avita il lago, la mia grande passione. Avevo cominciato a frequentarlo sulla riva a piedi nudi a pescare gobbini, arborelle e piccoli boccaloni e persici. Sulla riva, la grande darsena in muratura poteva contenere otto barche. Da lì partivo con il barchetto da pesca, remando in piedi con la vista sulla punta per raggiungere i vari appostamenti da me costruiti in mezzo ai canneti, per nasconderli ai becchipiatti in volo o in rimessa davanti agli stampi. Nei mesi invernali, ottimi per il passo, partivo sulla spingarda a palettare disteso supino sul fondo, tra nebbie e gelo, per avvicinare germani, alzavole, fischioni, codoni e morette, posati nel centro del lago. Con la barca remavo per ore per la lunga distanza dalla palude Brabbia, ove non andavi mai senza sparare almeno dieci fucilate tra palmipedi, trampolieri e beccaccini. Avevo il palmo delle mani, sotto le dita, con giganti duroni prodotti dai manici dei remi. Ci vollero anni perché scomparissero.

Non disertai la pedana del tiro al piattello, già campioncino a 16 anni. Non dimenticherò mai la prima gara al Kursaal di Varese, quando mio padre ed io arrivammo allo spareggio per la vittoria. Sparai e colpii il piattello, sparò mio padre e visibilmente padellò il bersaglio e il primo premio; ero felice e commosso, ma più commosso era lui, che mi aveva laureato tiratore eccellente.

La pedana in seguito mi diede notevoli successi. Nel campionato nazionale al piattello tra le 92 squadre provinciali composte da tre tiratori, che si disputava a Brescia, vinsi il titolo con Guglielmo Mozzino e Aldo Scioccati, davanti alla forte squadra bresciana, che annoverava Carlino Beretta e Dodo Manfredi, campioni di quel tempo.

Nella nostra squadra, Scioccati era stato sostituito da Dino Guerra, pilota decorato della guerra d’Africa contro l’Etiopia e di Spagna con i fanchisti, personaggio esuberante, scanzonato, gaudente. La sera prima della gara, Dino ci aveva portato alla Torre Azzurra, un ritrovo di lusso. Eravamo usciti alle quattro del mattino, vittime dei sorrisi e delle coppe di champagne offerte dalle compiacenti entreneuse. Andammo in pedana con i pronostici unanimi degli avversari e del pubblico a favore della nostra vittoria, come l’anno prima. Ma non fu così. Su 96 province (perché ne erano state aggiunte quattro della quarta sponda libica) ci classificammo ultimi. Arrivati in pedana, a stento fermi sulle gambe, Dino al piattello di destra sparava a sinistra, io su un piattello basso sparavo alto. Solo Guglielmo, da signore, sparava dritto. Finì tra meraviglia, applausi di derisione e soprattutto fischi. Al ritorno a Varese fummo convocati dal Federale, furente, che ci minacciò di gravi sanzioni e vietò ogni pratica sportiva per un anno, decisione gravissima se si pensa che lo sport giovanile era l’attività principe del regime.

La bella avventura giovanile a caccia finiva nel 1939, quando a maggio varcai il cancello del IV Reggimento Carristi di Bologna per il servizio militare, che durò fino al 1945 in vari fronti, sempre in prima linea.                                          

Sotto le armi: pensieri, ricordi, sogni

La caserma del Terzo Carristi in San Ruffilio di Bologna mi inghiottì in una tarda sera di fine autunno per il corso di allievi ufficiali. L’Italia era occupatissima nell’irrobustire i quasi otto milioni di baionette. Mi accorsi subito di questa urgenza perché non si aveva nemmeno il tempo di respirare. Appena arrivato al corso ero diventato un numero, una nullità, fino al momento in cui, terminata l’istruzione formale, ci portarono al poligono di tiro. Scaricai i due caricatori nel centro dei bersagli, superando anche gli istruttori. Divenni “qualcuno” il giorno in cui sparammo dal carro armato in movimento con la mitragliatrice. Il ritmo frenetico del corso concedeva un minimo di spazio la sera, dopo il silenzio, nel duro letto che costava tanta fatica rifare, identico al centimetro a quello accanto, all’alba. Prima di chiudere gli occhi, ottenebrati dalla stanchezza per la giornata passata sempre di corsa, andavo con la mente alle vicende di caccia di quella stagione, che era stata stroncata nel momento più bello del passo. Tutti amiamo fantasticare prima di dormire. Sognare ad occhi aperti gli episodi del passato, immaginare imprese eroiche, essere protagonisti delle ambizioni coltivate da sempre. Io amavo ricordare gli episodi venatori che mi avevano dato tante soddisfazioni.

Come quel giorno in cui mio padre invitò il Procuratore del Re e il Primo Pretore di Varese a caccia nella riserva di Tradate. Partimmo che era ancora notte con il primo treno delle Ferrovie Nord, in seconda classe, in quanto non si potevano portare i cani sui velluti rossi della prima. Tissi, il Procuratore, giuliano e legionario fiumano, buon cacciatore, e Leosco, il consigliere, gran padellaro e mio padre confabulavano per organizzare la logistica della cacciata. “Nella riserva non è consentita la caccia a gruppi di più di tre cacciatori” disse mio padre “e noi siamo in quattro”. I tre personaggi, all’unisono, rivolsero lo sguardo verso di me, giovincello pallido e magro, e subito mio padre aggiunse “noi tre andremo ai Ronchi, sopra la ferrovia, dove abbondano lepri e c’è la possibilità di trovare qualche beccaccia” poi, rivolgendosi a me “tu andrai sotto la ferrovia, verso la Cassinetta. I cani li prendiamo noi, devo far divertire i miei ospiti”. “Mah” osai obiettare, “senza di me chi andrà nel folto, chi guiderà i cani, chi scoverà le lepri al covo?” “Taci saputello, con Tissi prima di mezzogiorno avremo fatto la quota; appuntamento al bar della stazione” disse autoritario mio padre. I tre, prima di lasciarmi solo, spavaldi, mi licenziarono con un sorriso di scherno. Mi incamminai così, da solo, verso i boschi della Cassinetta. Era una fredda giornata di novembre, con il terreno coperto di brina. Nell’attraversare un campo arato scrutavo fra le zolle sconnesse perché sapevo che, quando il terreno è brinato, la lepre ama aspettare al pulito i primi raggi del sole. La individuai una frazione di secondo prima che schizzasse via, a una decina di metri. Si trattava di un tiro facile e infatti la colpii di prima canna. Poi, soddisfatto, mi diressi verso il grande bosco di robinie per controllare se vi si fossero rifugiate le starne levate dai cani dei cacciatori mattutini. La brigata si rimetteva sempre in uno spiazzo pulito che si apriva nel grande sottobosco di pagliettoni; fucile a bracciarm, senza fare il minimo rumore, trattenendo quasi il fiato, procedevo con cautela. Il frullo fragoroso del branco non mi colse impreparato: mirai con calma, facendo un bel doppietto. Poi mi diressi verso la presunta rimessa, che immaginavo potesse essere un altro piccolo spiazzo pulito. Ancora una volta ero riuscito ad arrivare a tiro riuscendo a incarnierare la terza starna. La seconda lepre potevo andare a cercarla solo percorrendo pian piano il fondo del Fontanile, scrutando attentamente le due sponde coperte di erbe basse e roveti. Avevo imparato dal vecchio bracconiere Framasun le malizie per scorgere la lepre al covo. Eccola! Intravidi un occhio e un pezzetto di testa in un groviglio di rami e foglie. “Se la faccio partire non riuscirò a spararle perché sparirà appena dopo il salto” penso. Sono senza cane non per mia scelta, così sacrificai la sportività dell’azione alla piccola rivalsa nei confronti di mio padre e dei suoi ospiti. Mirai davanti e sotto al muso per non rovinare la lepre e lasciai partire il colpo. Due lepri e tre starne, la quota era completata; mi diressi verso la stazione, carico di peso e di soddisfazione. Dovendo attraversare il bosco del Ponte, come al solito, procedetti a zig-zag, indugiando a scrutare il terreno. Venni attratto da alcune fatte freschissime di beccaccia. Tolsi il fucile dalla spalla e mi tenni pronto, avanzando piano; fatti pochi passi la beccaccia frullò a campanile e la abbattei senza difficoltà. Al bar della stazione venni attorniato dai clienti domenicali. “Sono stanco, prenderò il primo treno, consegnate a mio padre e ai suoi amici questa roba” dissi loro, e posai lepri, starne e beccaccia su di un tavolino. A sera seppi che i tre grandi cacciatori avevano fatto cappotto…

Oppure come quell’altra volta in montagna, al Sass Gross, nella riserva Cocquio, con mio padre e mio fratello Eustachio. Una faticosa giornata nei boschi scoscesi di robinie, noccioli e castagni, durante la quale vedemmo un solo fagiano che si buttò a palla verso il basso come un forcello. Eustachio riuscì a centrarlo in piena picchiata. Stanchi decidemmo di scendere verso il paese. Mi dettero del pazzo quando feci loro la proposta di attraversare il paese e di battere le campagne di confine con il terreno libero giù verso Bardello. Cocciuto li abbandonai e mi buttai nella ripida discesa. In meno di un’ora arrivai alle campagne ondulate imbattendomi in un grande passo di allodole. Feci fuori quasi tutte le cartucce con pallini grossi adatti alla stanziale ottenendo comunque un pingue bottino. Nell’unica marcita di tutta la riserva, nascosta fra filari di pioppi, alzai e abbattei due beccaccini di passo, lenti e prevedibili, che proprio per nulla fecero pensare alla “saetta alata”. Incarnierai anche una pavoncella che staccai da un piccolo voletto che mi passò sulla testa. Stanco, mi trascinai verso casa attraverso i campi. Mi era rimasta una sola cartuccia con pallini del 12. In un campetto di ravizzone (Brassica campestris L. var. Oleifera D.C. n.d.r.) mi schizzò fra i piedi un leprone. Tolsi il fucile dalla spalla e sparai. La lepre, colpita in pieno dalla scarica di pallini piccoli, iniziò a fare giri su sé stessa sempre più larghi tentando di fuggire. La inseguii a gran salti cercando di colpirla con il fucile scarico usato come clava… Finalmente riuscii a finirla e mi accasciai esausto a terra. I cacciatori del paese mi dissero che si trattava di quella famosa, maledetta lepre che da mesi faceva ammattire i segugisti locali. I cani la braccavano e poi, improvvisamente, spariva. Non credettero che fosse caduta con ignominia sotto una scarica di pallini del 12 in un prato e per giunta alzata senza l’ausilio di un cane.

Quando la faticosa giornata al Reggimento finiva e piombavo nel sonno, gli occhi si chiudevano sulla visione del lago, con il barchetto e i branchi di germani e di becchipiatti in genere che venivano bombardati con la spingarda, sulle saettanti volate dei beccaccini nella palude Brabbia o nel laghetto di Bardello, sui branchi di starne nei coltivi e nelle colline fin sulle sponde del Lago Maggiore, sul pa… pa… pa… ovattato delle beccacce alzate sul grande massiccio del Campo dei Fiori fino al fortino di Orino, a circa mille metri s.l.m. Compagni militari, amici per la pelle, furono tre o quattro cacciatori. Vissi alcuni sprazzi venatori nei sei mesi del corso quando, al campo di Marzabotto, divenuto poi tristemente celebre per la feroce rappresaglia nazista, inviato sui calanchi aggettanti sul fiume Reno a fare esercitazioni visive di alfabeto Morse, mi perdetti dietro un branchetto di starne, beccandomi sette giorni di camera di punizione. Ben sei anni doveva durare la mia avventura sotto le armi, in Africa, Albania, Italia, sempre al fronte, in prima linea. Ma in quegli anni non abbandonai mai il mio fedele Browning a cinque colpi, che mi fu accanto ovunque, concedendomi il piacere di vari sprazzi venatori.