CACCIATORI DI MONTAGNA, DI BECCACCE E BECCACCINI

Il più felice non è assolutamente chi ammazza di più ne tantomeno chi trova di più e neanche chi ha i cani migliori, il più felice è semplicemente colui che trae il maggior godimento e divertimento nel trascorrere il tempo nel bosco o in montagna dietro la coda del proprio cane inseguendo le prede desiderate…….."magari in solitaria nel più alto rispetto di chi e di cosa lo circonda"

Kirghisistan Le montagne del paradiso di Bill Byron

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Non ti sembra vero di avere vissuto un’esperienza di caccia così.

Quando vedi certi film, come Il Deserto dei Tartari, come Sette Anni in Tibet, pensi come sarebbe bello poter cacciare su montagne deserte, selvagge e sterminate come quelle, dove, per la miseria, ci devono essere di sicuro le coturnici;

Poi vai a prendere la pizza con gli amici, e si parla del film, dei personaggi e si, anche delle fotografie – bellissime vero?; alla fine della serata te ne torni a casa, domani si va a lavorare, ma prima di addormentarti ti ritornano in mente quei costoni ripidi e gialli, e tu che non seguivi più il dialogo tra gli attori, ma ti mettevi a scrutare il terreno alla ricerca di un gruppo di roccette o di un canale cespugliato, dove l’istinto ti diceva che varrebbe la pena scarpinare su perchè forse lì ci sono i cotorni.

E allora  prima di addormentarti liberi la tua immaginazione ed entri nel paesaggio del film, ne cacci fuori gli attori e la storia che stanno recitando, e li sostituisci con il tuo cane, un amico, e la voglia di cacciare su per quei costoni, e di fare fatica; e allora vedi il cane che ricama i costoni cacciando, e poi va in ferma, e ci sei anche tu che arranchi per salire, e senti perfino la neve che scricchiola sotto agli scarponi e hai paura che non reggano e vadano via lunghi, e il cane comincia a guidare, poi inchioda, e alla fine ti sembra di sentire anche il frullo; e in questo sogno non c’è mai la fucilata lunga, il doppio, il riporto, ma hai solo voglia di sognare l’emozione del cacciare, della azione del cane (questa sì, sempre perfetta), e il senso di essere completamente libero, di essere il padrone di quella montagna  bellissima.

Ma ti viene in mente che domenica hai dovuto cambiare tre posti prima di scendere dalla macchina, perché c’erano macchine dappertutto, e che poi ti sei trovato davanti una squadra, e sei finito in un posto meno buono dove non hai preso niente ma almeno non c’era nessuno tra i piedi.

Un bel giorno ti propongono di andare in Kirghisistan, ex Unione Sovietica: non sai neanche dove sia, pensi che sia uno dei vari pezzi dell’ex impero di cui scopri l’esistenza solo quando il Telegiornale ti dice che è scoppiata una rivoluzione: come la Cecenia, come il Nagorno Karabak… e allora? Vada per la Kirghisia, fidiamoci ancora di Giorgio che la fiducia l’ha sempre ricambiata coi fatti.

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E una volta lì scopri che un po’ di occidente ti ha preceduto: l’aereo è pieno di italiani e tedeschi che vanno lì per lavoro da qualche anno, e sul piazzale dell’aeroporto ci sono tante Mercedes di modello nemmeno troppo vecchio.

E poi solo la distanza sembra essere una garanzia…. Cinque ore di volo da Istambul; Per arrivare a Istambul ci volevano trenta ore di viaggio con la macchina stracarica per andare a beccacce; quello si che era un rischio… tutto quel traffico nella notte sullo stradone da  Zagabria a Belgrado, qualche volta con la neve, e noi a darci il turno di notte per metterci poco e arrivare prima; … per poi ritrovarci a bollettare quasi tutte le beccacce del primo giorno, dopo un viaggio così.

 Un’occhiata all’atlante, il Kirghizistan è sopra l’India, vicino alla Cina, è lontanissimo, chissà se c’è già andato qualcuno a  caccia; e poi ci sono queste montagne di cui non avevi mai sentito parlare prima, il Tien Shan, le Montagne del Paradiso, proprio mai sentite nominare, eppure sono una catena lunga 2.600 km, con vette oltre i 7.000 e più di cento cime sopra i 5.000.E’ deciso, si parte. Ti rassicura però la gestione – diciamo artigianale – della riconsegna dei bagagli, e ti rassicurano le facce degli autisti dei pulmini che ti portano via; ti rassicura soprattutto il loro modo di guidare, tipico della gente che abita in posti pieni di selvaggina: è una regola che ho verificato negli anni, per me è quasi una legge scientifica: quando imparano a guidare in modo decente e meno pericoloso, la selvaggina cala.

Mi colpiscono, nei grandi viali che portano dall’aeroporto alla città, le piante lungo la strada: sono pioppi a forma di cipresso, come quelli tanto diffusi nella pianura padana, ma con una ramificazione un po’ più rada e leggera, e una corteccia bianchissima, come quella delle betulle. Mi riprometto di fare qualche talea prima di partire perché vorrei provare a riprodurli.Quando abbandoni lo stradone e ti dirigi verso le montagne tutto cambia, e ritrovi qualcosa che ti ricorda l’est europeo degli anni settanta: contadini con facce da contadini, villaggi senza case alte, senza capannoni di calcestruzzo, senza negozi, con tutti i bambini in strada a giocare a tutte le ore;  e le mucche sulla strada, e i cani che ti abbiano contro pieni di paura, e qualche costume locale, in particolare i tipicissimi cappelli bianchi a ricami neri, indossati con naturale dignità; e poi la gente che si sposta a cavallo, e i cavalli che hanno le redini fatte di corda, e i panni stesi ad asciugare fuori al sole di gennaio, e i bambini che ti guardano curiosi ma non ti chiedono niente; neanche i bossoli delle cartucce ti chiedono, neanche quelli.

Una cosa nuova, mai   vista prima, sono i cimiteri, piccoli, uno per ogni villaggio, appoggiati sopra ad una collina, con le tombe che sono qualcosa a metà strada tra una voliera per uccelli e un gazebo: a vederle contro il cielo emanano una spiritualità profonda e un grande senso di pace; ti danno la impressione che a questo antico popolo (da sempre conquistato da popoli lontani come i turchi, i mongoli, e infine i russi, ma mai attaccato dai vicinissimi cinesi per la difesa naturale costituita  dalle grandi montagne) il vento abbia portato, superando senza fatica il Tien Shan, un po’ della spiritualità delle genti che vivono sugli altipiani del Tibet e del Pamir: come si fa altrimenti a inventare dei cimiteri così?

Starna asiatica con ferro di cavallo nero

Starna asiatica con ferro di cavallo nero, piccole come le nostre autoctone

Poi arrivi alla casa di caccia, risalendo una valle completamente disabitata, tra montagne spoglie, e il sogno comincia a diventare realtà: perché i costoni esposti a sud sono brulli e gialli come quelli del Deserto dei Tartari; perché vedi uno dei cavalli della fattoria che funge da casa di caccia con una grande ferita ancora sanguinante, e ti dicono che sono stati i lupi poche notti prima e che è un danno grosso perché per chi abita qui il cavallo è l’unico mezzo di trasporto; perché a tavola ti parlano del mitico ular, una specie di coturnice grossa come un cedrone (sarà vero? ti chiedi, o è uno scherzo che fanno agli stranieri d’accordo con Blek Giacomelli?), che vive a 4.000 metri, e forse si può andare a cercarlo fra qualche giorno, ma ci vogliono tre ore a cavallo su per la valle deserta, e poi si sale a piedi nella neve fino ai 4.000, e se si è fortunati forse uno spara; perché ti dicono che le cotorne sono tante, tantissime, ma i più difficili da prendere – i più ambiti – sono i fagiani;

Quando esci la stellata è di uno scintillio emozionante, come una promessa di giorni felici che stanno per arrivare. Guardi giù nella valle e su sulle montagne: neanche una luce, solo il riflesso della neve nella notte stellata.

Il giorno dopo si va a caccia. E le cotorne ci sono, altro che se ci sono.

Tantissime.          

Una cosa mai vista, e neppure mai sentita.

E la sera prima di addormentarti non ti tornano in mente solo i frulli fragorosi, le ferme, i riporti, gli errori tuoi e del cane, il carniere abbondante, quel fagiano scuro, piccolo e velocissimo che ti ha regalato una emozione che non credevi proprio di potere avere da un fagiano; non ti torna  in mente solo la lepre che hai mosso coi piedi (come sono piccole qui) o il ferro di cavallo nerissimo delle starne; non ti tornano in mente solo certi momenti in cui sembra che sulla montagna ci sia un coro di cotorne che cantano.

Rivedi anche l’apparizione silenziosa del mitico avvoltoio degli agnelli,  quello con i baffi neri, che in certi libri viene disegnato vicino all’aquila reale per fare vedere che la sua apertura alare è quasi il doppio, e a fondo pagina c’è riprodotta una vecchia stampa con l’avvoltoio che ruba un bambino dalla culla e viene disegnato più grande degli uomini che lo maledicono, e con le ali che sono larghe come la casa; te lo sei trovato sulla testa, così vicino che hai visto bene i suoi baffi,  e non ti ha nemmeno sfiorato l’idea di sparargli, solo quando hai visto che volteggiava sopra il cane ti sei tenuto pronto, non si sa mai, e sei stato contento che non ce ne sia stato bisogno; un uccello immenso e leggendario, grande come non ti potevi immaginare, e forse ancora di più;  anche l’altra coppia di amici che è andata a caccia da un’altra parte ne ha visto uno, chissà se era lo stesso.

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Rivivi la continua presenza delle albanelle sui costoni, anche loro a caccia di coturnici; una cotorna ferita, che hai cercato andando nella direzione del volo dopo la spiumata, l’hai ritrovata ancora calda e sanguinante, proprio sotto al cespuglio da cui hai visto l’albanella volare via quando hai screstato: è andata poi ad appollaiarsi su una sasso sul crinale opposto, e la vedevi contro il cielo, invulnerabile e apparentemente tranquilla, ma certo attenta ad ogni tua mossa; hai lasciato lì la coturnice ormai rovinata, senza provare rabbia verso il falco, anzi augurandogli buon appetito. In fondo queste cotorne sono più sue che tue.

Ti torna in mente la neve piena di tracce di cotorne che a un certo punto non ci badi nemmeno più, solo quando vedi che sono freschissime e che le fatte fumano ti metti in campana; e l’attraversamento dei costoni esposti a nord,  con la neve fino alle ginocchia e l’emozione che provi quando cominci a vedere l’erba, perché spesso loro sono proprio lì; e il cane fermo  nella neve e noi che ci piazziamo dandoci uno sguardo di intesa e scrutiamo la neve piena di impronte davanti al cane, e non  vediamo niente, e poi parte un volo che saranno venti, erano proprio dove lo cercavamo con gli occhi, ma non le abbiamo viste, al pulito sulla neve, incredibile;  e  quella volta che il cane era fermo nel punto più alto che abbiamo raggiunto, ho fatto il doppio, ed erano starne – a quasi duemila metri – che strano, e la gioia del doppio è velata da un solo piccolo rammarico: peccato che non siano cotorni;

Ripensi a quando hai trovato nella neve, su un costone spoglio esposto a sud, in uno spiazzo senza una pianta, senza un cespuglio, senza una roccia che fungano da riparo, il posto dove ha dormito nella neve un capriolo siberiano; che freddo pensi, qui di notte, sulla neve, nel vento; ma qui ci sono i lupi,  abbiamo visto le loro tracce diverse volte, e dormire all’asciutto sotto un gruppo di tuje è troppo pericoloso, anche la via di fuga potrebbe celare un agguato.

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I caprioli li troviamo quasi tutti i giorni, se ne vanno via diffidentissimi, li vediamo sul costone opposto in fuga (noti con piacere che anche loro arrancano un po’ nella neve alta), ma anche da così lontano ti impressiona la loro dimensione; una sera ci fanno vedere un trofeo in preparazione: a nessuno di noi interessano particolarmente queste cose, ma restiamo tutti impressionati dalle dimensioni delle corna, è proprio un animale diverso dai nostri, le fattezze sono quelle del capriolo europeo, le dimensioni sono quelle di un piccolo cervo.E soprattutto ti tornano in mente quelle montagne sterminate, deserte, tutte tue per un giorno, ancora più belle, cento volte più belle, di quelle dei film o delle fotografie delle riviste, e capisci perché le hanno chiamate le Montagne del Paradiso; e quei pascoli dove non pascola nessuna mandria, non un pastore, non un baita, non un recinto, niente.

E’ stato bello cacciare con un vero amico su queste montagne, e vivere con lui momenti di caccia  tra i più belli e indimenticabili, di quelli che cementano un’amicizia, e sarà bello ricordare insieme la caccia in Kirghisia, e progettare di ritornarci insieme;

 Non c’è bisogno di cercare le parole: senti che l’altro prova lo stesso tuo stupore per l’avvoltoio e di fronte alle montagne, e vive l’emozione grande della caccia e l’immersione totale nella natura selvaggia come la vivi tu, e quelli che non lo capiscono sono cazzi loro, non ce ne frega proprio un bel niente;

Ogni tanto ti viene da pensare che se due giorni fa eri a Milano e ora sei qui è proprio vero che nessuna distanza è troppo grande, neppure quella con la Kirghisia, figurarsi quella tra due uomini, al massimo lo è quella con un volo di cotorni che va a mettersi su una parete di roccia inaccessibile, o forse si può arrivare anche lì, lo si farebbe di certo sulle Alpi perché sulla destra, guarda bene, forse si passa, probabilmente poi non si spara ma non importa, proviamo; ma qui no, tanto nella prossima mezz’ora troviamo altri due voli.

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Chissà se un giorno qui con me e Lucio ci sarà anche una persona che ci è molto cara, chissà se anche a lui il vento ha portato qualcosa, anche solo qualcuna delle parole di amicizia, di stima e di affetto per lui che ci siamo scambiati.

Il giorno della partenza mi sono ricordato di prendere le talee: qualcuna ha attecchito e adesso sono  alte quasi un metro; già mi vedo questi pioppi diversi dai nostri fare la guardia alla cascina, loro diventati grandi e io diventato vecchio a ricordarmi, guardando loro, di giorni indimenticabili                                                  

 

 

 

 

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2 Comments

  1. Luciano Morra

    Bellissimo il racconto…..leggendo mi sembrava di essere lì con voi…..complimenti!!

  2. Francesco Santelli

    Sono stato con la Dimtur, mitico Taffi, nel 199o ca, i kirghisia.
    Ricordo Coturnici, pernici nelle basterebbe, fagiani anche a 2000 m intrattabile nei macchioni a nord, l unica beccaccia che si era alzata a mo di farfallina, le tantissime lepri, gli Ular sugli alti crinali fra la Kirghisia e L Usbechistan a 3000 m di quota.
    Un vero paradiso terrestre.

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