CACCIATORI DI MONTAGNA, DI BECCACCE E BECCACCINI

Il più felice non è assolutamente chi ammazza di più ne tantomeno chi trova di più e neanche chi ha i cani migliori, il più felice è semplicemente colui che trae il maggior godimento e divertimento nel trascorrere il tempo nel bosco o in montagna dietro la coda del proprio cane inseguendo le prede desiderate…….."magari in solitaria nel più alto rispetto di chi e di cosa lo circonda"

Le starne bisogna volerle di Felice Steffenino

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Quando febbraio si dimentica di essere inverno, l’erba che è rimasta nei prati rinverdisce come i teneri grani a metà collina e anche le vigne stecchite si animano, filtrando la luce, e gli arati vasti e sconnessi sembrano respirare. Gli uccelli non cantano ma gridano un urrà! Anch’essi credono che l’inverno sia ormai passato. Quando vai in canile, i cani seguono ogni tuo passo.

Se ti fermi, ti guardano negli occhi intensamente, azzardano qualche mugolamento esplicativo. Se abiti in campagna, si voltano a fissare i fianchi distesi delle colline. Guardi con loro. A poco a poco si insinua nella tua mente e nella loro lo stesso pensiero. Come stacchi i guinzagli dal chiodo si scatenano, ti azzannano le mani, ma solo per confidenza. Assicurati, mentre ti avvii verso i prati della valle a cercare il vento, tirano sui guinzagli frenetici. Ci vuole del buono per calmarli: devi riprenderli con decisione. Poi, li apostrofi con parole facete perché, in fondo, sei contento che dimostrino tutta quella sfrenata passione, quell’avidità di andare. Strappi un ciuffo d’erba e lo lanci in aria.

Segui i fili cadere volteggiando scomposti dalla brezza. Dai il «terra» ai cani voltati contro vento. Fremono. Tentano già di rialzarsi sugli arti. Devi ripetere il comando in modo perentorio. Poi, «via». Sono due masse di muscoli che scattano con tutta la forza della loro passione trascinante ed irrefrenabile i miei cani: una setter bianco nera ed un pointer bianco arancio. Aggrediscono il terreno col naso puntato nel vento a carpirgli l’emanazione. Si slanciano divergendo sui fianchi distesi delle colline, senza discriminare il terreno. Sanno che è valido l’arato, il campo di grano, il prato, il sovescio, i filari disadorni delle vigne. Girano all’estremità senza rallentare, si incrociano dandosi solo un’occhiata, si scambiano il terreno con regolare alternanza.

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Ripetono il gioco e ad ogni incrocio davanti a te, che procedi perpendicolarmente, vedi sollevare in aria, nella sgroppava potente, frammenti di terra compatta. C’è niente che ti possa pagare quei momenti. Senti che ti devi sforzare per seguire il lavoro con occhio critico, quasi distaccato, non lasciarti coinvolgere. Hai risposto molte speranze in quei due cani. Ma ad un tratto, sulla tua sinistra, il pointer scatta in ferma con metto rovescio, rimane alto con gli arti piantati sul terreno soffice ricoperto dal tenero verde del giovane grano, un orecchio arrovesciato. Guardi il setter andare via sul suo percorso contrapposto, imperturbabile, coda abbassata immobile, svoltare al margine nel vento senza sbandamenti, puntare verso il compagno di coppia, improvvisamente rallentare per individuare, poi, a cento metri, scivolare fulmineo sul posteriore, tesa eretta, occhi fissi sul compagno a credere al buio.

Ti avvicini al cane in ferma, teso, fremente. Ti sente giungere e, senza volgersi, rotea solo l’occhio dilatato per scorgere. Lo affianchi: uno strappo, come un affondo, piega il tenero grano, lascia sulla terra il solco marcato dai piedi tra le piantine pestate che si rialzano lentamente. L’attesa brulicante, il silenzio appena mosso dalla brezza nella distesa dilatata di verde e di azzurro e improvvisamente, come un tuono nel cielo infantile di primavera, il tambureggiare delle ali impetuose che battono l’aria: le starne! «Terra!» Metti al guinzaglio i cani che al frullo si sono buttati giù. Consulti l’orologio; ancora dieci minuti. Ritorni sui tuoi passi con i cani compresi, riprovi il vento, li rimetti al «terra», li fai ripartire. Ripeti lo stesso gioco per il tempo di un quarto d’ora. Magari riprendi, dopo mezz’ora, per qualche minuto, se un cane non ha avuto possibilità di incontrare, tanto per mettergli il selvatico nel naso, poi, via, sulla macchina, in canile: devono restare con la voglia inappagata, sempre. La cinegetica agonistica è una malattia di cui non si guarisce nemmeno quando le gambe non ce la fanno più a correre dietro ai cani. Allora si sta sui bordi del campo e si segue dalle carrarecce col binocolo. Non si deve credere, quando si vede un affezionato ancora in gamba fare da spettatore, che abbia deciso di abbandonare. Magari lo dice, ma non è vero. Significa che non può fare diversamente perché non ha cani. I veri cani da competizione, quelli che possono correre una prova con possibilità di stare in classifica con una qualifica onesta sono sempre pochi: si contano sulle dita delle mani.

La cinegetica agonistica, per esercitarla, richiede, oltre alle capacità tecniche di preparare e condurre un cane dotato, pazienza, sacrificio e denaro. A meno che non si abbia possibilità di ricorrere al professionista. In questo caso, si perde il novanta per cento delle soddisfazioni che da essa possono derivare. Si è solo i proprietari dei cani da prove e basta.

Ti occorrono anche starne.

Se non hai la possibilità di andare in Jugoslavia ti devi arrangiare. A meno che non possa essere ospitato in una buona riserva di starne, se la trovi, da un concessionario compiacente. Ma devi stare abbottonato perché le guardie del Comitato Caccia ti fregano anche lì. Allora il concessionario non sa niente. In Italia, i cani si allenano un mese prima dell’apertura. E la legge. O vai all’estero o finisce che devi sempre andare di frodo, sia in riserva che fuori. Hai voglia di trovare starne fuori, se non c’è qualche buona zona di ripopolamento. E se ti beccano paghi. Preparare per le prove, vuole dire avere possibilità di fare un incontro col selvatico in dieci minuti, problematico. Sicuro, ti agiti anche un po’. Badi sempre da ogni parte per vedere se sei adocchiato. Il tuo nervosismo lo trasferisci al cane. Ed il quagliodromo non serve a preparare per certe prove. Non è soltanto questione dello stato del selvatico e del terreno. Per allenare, rimettere comunque il cane in confidenza col selvatico, la coppia è meglio della quaglia. Diffusibilità di emanazione a parte, meno confidente e più naturalmente spaziata fino ad emarginarsi, permette azione ariosa al limite della siepe.

Balac su una cresta di neve

Balac su una cresta di neve

Quando decide di pedonare va via diritta contro vento, facilitando la guidata, pur rimanendo grande maestra in strategia, ché l’amore non riesce a distrarne l’istinto vigilante. Provate su coppie rinselvatichite ed accanate: c’è da ricredersi; anche se il branco d’autunno è una cosa diversa: richiede maggiore impegno, convinzione, perentorietà. È tutta la caccia con in più l’esigenza del comportamento peculiare alla razza senza arrangiamento e nel lasso del quarto d’ora. Troppo severi certi critici delle prove primaverili, ai tempi in cui il selvatico meno frastornato poteva esibire comportamento alquanto remissivo, in tale stagione, finivano per ritenerlo saggio scarsamente probativo, anche se comprensibile, per sportivi che temevano, con tale gioco, rovinare il cane da caccia maiuscolo: Arksvright, Laverack, non quello inteso da troppi generici censori attuali. Ma la starna non è selvatico da lasciarsi prendere in contropiede, se matura e non menomata, anche sbrancata. Ovviamente, in branco ha un’altra forza: la sua forza, quella che ancora l’ha salvaguardata, malgrado tutto. Nel paese d’origine delle prove sul terreno, in Gran Bretagna, le competizioni su brigate di starne e grouse furono frequenti sin dall’inizio dell’istituzione della pratica. Da noi, la prima si svolse a Sutri nel 1956 per iniziativa del Pointer Club. Si corrono in estate ed in autunno. Oltre a presentare un selvatico maggiormente accorto, più mobile e spaziato, quelle autunnali hanno il pregio di stimolare nel cane l’estro e la sagacia dello specialista, mentre le estive permangono confronto con coppia di primavera, seppure avente altra preoccupazione e mutate condizioni ambientali, ma con palla al piede costituita da nidiata immatura, ancora incapace di un qualsiasi apporto alla forza del branco, — semmai intralcianti — la quale rimane esclusiva espressione della capacità di manovrare delle vecchie. Gli starnotti analfabeti, impreparati, reggono caparbi, restii a pedonare per impossibilità a tradurre, data l’immaturità, una strategia peculiare della specie adulta, a mettersi in volo pur ali male impiumate, inette per rimesse appropriate. Prove con identici fini, ma con selvatico e terreno i quali, per stato contingente, possono essere arti a stimolare prestazioni qualitativamente diversificate, anche se l’avifauna di rito permane la starna, il campo la sgombra distesa Impossibile ricorrere a surrogazione con selvatico liberato, sia pure starna, per una probante efficienza del saggio. Se si devono provare attitudini e qualità, occorre avifauna cui l’assuefazione ai luoghi, la robustezza, la selvatichezza consenta una esplicazione esemplare delle difese.

Gli Inglesi, istitutori delle prove sul terreno, trovarono che grouse e starne erano selvatici idonei per la prassi, pur considerando maggiormente le prime che le seconde. Sul Continente, mancando quelle, si optò per le altre e divennero norma per ‘classica’, riscontrando in esse comportamento idoneo a stimolare in modo esemplare le doti che caratterizzano il cane da ferma. A coturnice è solo caccia, a beccaccini c’è molto spettacolo. A starne, d’autunno, c’è l’una e l’altra cosa ed il carniere è più frutto dell’abilità del cane che della fortuna. Le starne, viste sotto il profilo della cinegetica esemplare. sono insostituibili.

È risaputo.

Ma molti non sanno che per averle non depauperare bisogna volerle.

C’è un posto, dalle mie parti, che non sembra Italia per la presenza di starne inconsueta da noi. Si trova sulle colline con vigne, campi, sativi, prati stabili. Sono terreni inadatti per prove classiche, ma per mettere il selvatico nel naso al cane servono. Un giorno venne un amico ad allenare con me. Ai reiterati incontri col selvatico esclamò: «Ma questa è Jugoslavia!».

Dissi che tutta l’Italia poteva essere Jugoslavia o Cecoslovacchia. Le starne bisogna volerle, non basta parlarne per averle.

Conosco la riserva perché ho contribuito a costituirla. E un comprensorio di milleduecento ettari con circa la metà destinato a riservino. I proprietari sono i cacciatori locali che si sono autotassati. Nessuno dei soci può cedere permessi. La caccia si apre dopo vendemmia, nella seconda quindicina di ottobre e si chiude a metà dicembre. Due uscite settimanali con una lepre e due stame per quota giornaliera, per chi sa farla. Parimenti alle stame, le lepri abbondano ma, per l’ampiezza dei riservini, è sempre selvaggina da conquistare tanto per la stagione che per la regolata disponibilità. Si irradia nei terreni circostanti delle caccie controllate. Chi dice che le starne soffrono l’abbandono delle terre ed i prodotti chimici usati in agricoltura non dice una verità assoluta.

*Ursula dell’Arbia alias Margot ed il figlio Annibale alias Pelè in ferma e consenso su starne. Un attimo prima dell’involo…

*Ursula dell’Arbia alias Margot ed il figlio Annibale alias Pelè in ferma e consenso su starne. Un attimo prima dell’involo…

Sicuro, anche questo, ma non è determinante. Le starne scompaiono perché non le vogliamo, siamo incapaci di realizzarne la sopravvivenza allo stato naturale. E dire che dipende solo da noi.

Ma siamo turlupinati da interessi particolaristici che fanno leva sull’ingordigia di molti di noi.

I cacciatori non sono soltanto gente semplice; la maggior parte, per varie ragioni, è incapace di proiettare la caccia in un avvenire anche prossimo e finisce per vivere alla giornata, lamentandosi. La loro voglia in-contenibile di preda facile ha fatto la fortuna dei produttori di selvaggina sofisticata: quella che finirà per uccidere la caccia, diseducando il cacciatore. Il giro dei miliardi che ha messo in moto l’inefficiente ripopolamento della caccia italiana ha sopraffatto ogni più elementare etica venatoria.

Ci sono riserve in cui si fanno aperture su gruppi di starnotti nati in cattività, lanciati sul terreno del comprensorio a luglio o ad agosto. Anche se la nostra sta diventando l’epoca della voliera, non si dovrebbe permettere che la caccia sia parodiata sul suo proprio terreno.

La caccia autentica non può trovare una ragione per essere esercitata su selvatici immaturi o disambientati, a cui non è stato lasciato il tempo per rinselvatichire. Uscire dal contesto di tale realtà vuoi dire stare coi piedi almeno a due metri da terra, fare il gioco di coloro che, su uno sport popolare, fondano interessi non sempre giustificabili. Sicuro, potremmo avere starne naturali anche da noi, allenare, pagando, come in Jugoslavia, mantenere nel paese una valuta sempre più necessaria.

I cacciatori disposti ad una apertura a metà ottobre con due uscite settimanali ed una lepre e due starne di carniere fino alla metà di dicembre e mezzo terreno del comprensorio istituito a riservino intoccabile, alzino la mano.

Ma il nostro è rimasto il paese in cui si continua, per legge, a fare la guardia al bidone vuoto di benzina e alle riserve che sfruttano selvatici provvisori, mentre la concessione prevede particolare cura per la stanziale e al fine dell’irradiamento, non si dice niente. Succede invece che qualcuno ti dica: «Mi piacerebbe farvi saltare quella riserva. Verrebbe fuori un’ottima zona di ripopolamento.. Un tempo, dove sorge parte della riserva, c’era una buona zona di ripopolamento a cui i locali avevano dato due mani per costituirla. Andò avanti un bel po’. In poco più di cinquecento ettari venivano catturate duecento lepri all’anno, allenando a febbraio, in un quarto d’ora, si potevano anche fare una mezza dozzina d’incontri sulle starne accoppiate. Bene, un giorno successe qualcosa, i cacciatori vennero a sapere che la riserva non era propriamente una zona di ‘ripopolamento e cattura’, ma un’oasi di protezione per la migratoria — pensate un po’, sulle colline del Monferrato–. Vennero da tutte le parti, anche da altre province e regioni. Ancora prima dell’apertura, in due giorni la ridussero ad un cimitero. Una volta scrissi che la questione della caccia, in Italia, non era tanto una questione di selvaggina quanto di uomini. Oggi, devo aggiungere che è questione di uomini col cervello.

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1 Comment

  1. nino

    grande Steffenino,RIP

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