Matteo pronto a servire il suo Jack

Una dettagliata analisi delle varie fasi dell’incontro. La filata, la ferma, la guidata. Le errate interpretazioni delle fasi conclusive della ferma.

Succedeva ogni volta da quasi un mese: come sbucavo dal bosco e mettevo piede nel medicaio che saliva verso i calanchi, a più di cento metri – dove l’erba lasciava posto ai ginepri – partiva un voletto di sei o sette starne indiavolate che scollinavano verso la frana e sparivano . Decisi allora di cambiare giro: andai in cima alla frana, scesi attraversando il calanco, dal quale risalii fino a spuntare sulla riva al limite del campo – non visto e col cane ai piedi – proprio là dove abitualmente partiva il voletto.

Il cane fece pochi passi e rimase in ferma ad indicare che le starne erano lì, schiacciate negli anfratti del terreno per sottrarsi con l’assoluta immobilità al pericolo incombente che le aveva colte di sorpresa. E così rimasero per un tempo che la tensione mia e del cane fecero sembrare interminabile. Infine il loro panico esplose in fuga alata. Si era cioè verificato che le stesse starne, dimostratesi leggerissime ed inavvicinabili allorché avvertivano il pericolo da lontano, avevano cercato scampo con ostinata immobilità per un improvviso pericolo, materializzatosi a breve distanza.

Ed è lo stesso comportamento che adottano quando si sentono minacciate da un falco. Altro caso. La riserva di caccia confinava con una zona di rifugio, dalla quale numerosi fagiani uscivano abitualmente in pastura. Ma appena sentivano le automobili dei cacciatori fermarsi in zona e lo sbattere delle portiere, tornavano correndo a rotta di collo nel rifugio, sempre a piedi, sempre di corsa, non se ne vedeva volare uno. Ciò perché il pericolo non era tanto immediato da provocare il frullo; d’altra parte – una volta intrapresa la fuga a piedi – i fagiani, se non ne erano costretti, non si mettevano in ala, ma continuavano a correre fino a che non ritenevano di essere in salvo. In una certa misura, questo comportamento è comune anche alle starne nel senso che di norma pure loro non si mettono spontaneamente in ala mentre stanno correndo – o anche solo camminando – bensì solo dopo una breve parentesi di immobilità; può così accadere che, se il cane le ferma da buona distanza, tentino di sottrarsi a piedi, percorrendo a volte anche tratti relativamente lunghi. Se malgrado l’allontanamento di pedina non riescono a distogliere il cane dal perseguirle, si arrestano schiacciandosi al suolo nel disperato tentativo si sottrarsi al pericolo grazie all’immobilità, oppure a collo ritto per guardarsi attentamente attorno e cogliere gli avvertimenti di un più grave pericolo che le induca al volo. Verrà infine il frullo, che generalmente sarà però preceduto da una pausa di immobilità. Vediamo ora questi comportamenti a fronte del lavoro del cane.

Il cane in cerca avverte l’odore della selvaggina. Se l’emanazione è tanto chiara da non lasciare dubbi sulla sua origine, il cane ferma immediatamente e là rimane per segnalare la presenza di selvaggina davanti a lui. Dal canto suo la selvaggina – se ritiene non grave il pericolo grazie alla rassicurante distanza che la separa dal cane – si schiaccia a terra per cercare di passare inosservata. E tanto più improvviso è il pericolo, tanto più probabile sarà la ricerca di scampo mediante l’immobilità. A questi fini l’andatura del cane gioca un ruolo importante perché quanto più è veloce, tanto più inaspettato sarà l’avvertimento del pericolo e quindi tanto maggiori le probabilità che la sorpresa induca la selvaggina a schiacciarsi sul terreno. Ed è un vantaggio a favore delle razze inglesi. Ci sono casi in cui però l’emanazione è incerta, probabilmente perché la sorgente è troppo lontana per essere chiaramente identificata: si manifesta allora la filata, durante la quale l’andatura assume espressioni che preludono la probabile prossima ferma. Ci sarà quindi il cosiddetto “cambio di passo”, che per il galoppatore consiste nel compiere falcate più corte e rampanti, così da mantenere il ritmo ma ridurre la velocità. Nel trottatore la sgambata diventa più rigida, più corta e saltellata che – pur rallentando la velocità per preludere il passaggio dal trotto al passo – non è un semplice rallentamento, bensì una “compressione” dell’andatura. Per entrambi – galoppatori e trottatori – la coda è rigida e la testa più alta possibile per captare nella brezza le volatili particelle d’odore provenienti da lontano. Avuta certezza della presenza della selvaggina, si verifica la ferma, che in questi casi, essendo preceduta dalla filata (cioè da un rallentamento) è sempre tendenzialmente morbida. Fa teoricamente eccezione il Pointer la cui filata termina con una serie di rallentamenti a scatti. Durante la filata, un passo di troppo rispetto alla necessità di leggere con certezza l’origine dell’emanazione può causare l’indesiderata messa in volo della selvaggina. Da cui l’innegabile vantaggio del cane maggiormente dotato olfattivamente e con tanto cervello da saper distinguere in anticipo l’emanazione valida che determina la ferma. C’è però l’eventualità che la selvaggina, avvertendo l’avvicinarsi del cane, tenti di allontanarsi a piedi. Si verifica allora una situazione critica: il cane infatti – dopo aver raggiunto la certezza olfattiva di aver agganciato un’emanazione valida – sente che la fonte dell’odore si sta allontanando. Mantenerne il contatto in quelle condizioni è pericoloso e basta un passo troppo svelto perché la selvaggina, già in allarme, si metta in volo. La prudenza diventa allora d’obbligo per ispirare la parte conclusiva della filata, caratterizzata da grande concentrazione e lentezza del movimento. In alcuni casi il cane riesce a mantenere il contatto sino a che la selvaggina arresta la sua fuga e si lascia fermare. Altre volte invece l’emanazione svanisce per eccessivo allontanamento della sorgente. Il cane allora – magari dopo un breve accenno di ferma – riparte compiendo brevi e concitati zigzag sino a riagganciare l’emanazione. Questa volta la decisione con cui avviene il contatto è tale da indurre la selvaggina a cercar scampo con l’immobilità. E finalmente ci sarà la agognata ferma valida (o il malaugurato sfrullo). Si tratta quindi di un’azione complessa e della cui difficoltà il più delle volte il cinofilo non si rende conto.

A questo punto al conduttore non resta che assistere alla conclusione della ferma – cioè l’involo – dopo un’attesa la cui durata varia a seconda delle circostanze. È però fin troppo evidente che a fronte di una ferma che il cane si è guadagnato in virtù di gran discernimento (per evitare lo sfrullo dovuto ad un passo di troppo) qualunque azione conclusiva imposta dal conduttore che induca a forzare la ferma denota incompetenza e misconoscenza di tutto quel che è successo prima. Ecco perché altrove ho descritto la “accostata a comando” come “la madre dei vizi”, cioè una corbelleria che arrischia di instaurare deleterie abitudini. Alla partenza del selvatico il cane deve restare corretto, cioè non deve inseguire perché – stando a quanto insegnato dai maestri della cinofilia – ciò potrebbe interferire con la fucilata. Potrei forse capirlo nella conclusione di una ferma su lepre, ma per selvaggina che vola …un incidente può anche capitare per imperizia del cacciatore, ma tutti coloro che mi leggono sanno benissimo che l’interferenza dell’inseguimento sullo sparo di selvaggina alata è un’eventualità piuttosto rara. A meno che non si tratti di selvaggina appena liberata che il cane tenta di abboccare ….ma è tutt’altra storia!. Il vero motivo per esigere la correttezza al frullo è per contrastare la voglia di forzare la ferma indotta dal desiderio del cane di veder volare ed inseguire la selvaggina. Il motivo principale è quello!. Non a caso se un cane non vuol saperne di fermare, bisogna insegnargli a restar corretto al frullo: dopo di che con ogni probabilità si metterà anche a fermare.

Secondo alcuni la conclusione del punto e relativa messa in ala provocata dal cane trova in certi casi una specialistica giustificazione funzionale: per esempio un amico mi ha fatto notare che nel bosco – a beccacce o a fagiani – fa comodo avere un cane capace al momento giusto di mettere autonomamente in volo la selvaggina fermata, mentre il fucile si apposta altrove per migliorare le probabilità di un tiro utile. Ed è vero, ma è una situazione sostanzialmente diversa. Il mio amico cita infatti solo due fra i molti cani avuti nella sua lunga carriera venatoria (guarda caso madre e figlio) coi quali si era instaurato un rapporto di “complicità fra cane e cacciatore” in virtù del quale capivano quando lui era ben appostato ed era il momento gius to per provocare il volo. Anch’io ho avuto qualche cane così, anzi ne ho uno anche adesso in canile, la mia Ciccinin che, se le chiedo di fare un turno che assomiglia a quello richiesto in una prova, mi guarda come se fossi matto, ma che a caccia è un’artista. E degli artisti non si può fare l’identikit, né si può catalogare il loro operato: sono così in funzione della loro particolare intelligenza e dell’esperienza che hanno maturato alla quale hanno saputo con genialità informare i loro comportamenti. A Ciccinin non ho insegnato nulla, ha imparato tutto da sola; fatto sta che quando il campanello che ha al collo cessa di battere e finalmente la intravedo in ferma su di un fagiano nelle moderne piantagioni destinate alla produzione di bio-massa (alte quattro o cinque metri e fitte che non si vede un accidente) mi limito a farle un imperc ettibile cenno con la mano per segnalare che mi allontano fuori dalla piantagione ad aspettare che prima o poi augurabilmente il fagiano mi voli sulla testa. E quando la Ciccinin me lo riporta sbuffando dal naso come un cavallino di razza c’è solo da abbracciarla. Ma al di là delle peculiari personalità dei protagonisti di simili prodezze, la principale differenza consiste nel fatto che in quei casi i cani non mettono in volo a comando, ma di loro iniziativa quando ritengono che sia il momento giusto. In quei frangenti il conduttore deve infatti mantenere il più rigoroso silenzio per non vanificare l’efficacia della sua postazione strategica. Quindi il cacciatore non comanda un bel niente, fa tutto il cane di testa sua.

E c’è dell’altro da aggiungere. Un conto è il cane consapevole di essere in ferma sotto il controllo del suo conduttore: ed in quel caso deve restare immobile ad attendere l’involo, che il cacciatore stimola con un “brrrr” pronunciato a fior di labbra, o con una tossicchiata per quel residuo di bronchite di cui siamo inguaribilmente affetti. La selvaggina sotto ferma, quando avverte la presenza non solo del cane, ma del ben più temuto cacciatore, regge l’immobilità per un tempo che a noi sembra lungo ma che il cronometro misurerebbe in secondi. E poi vola. Se invece il cane in ferma è solo – cioè senza il conduttore al suo fianco – la selvaggina potrebbe reggere per un tempo molto più lungo. Mi è capitato una volta di perdere il cane nella nebbia, non sentivo più il campano e non lo vedevo: era in ferma a duecento metri da me, dove rimase immobile per quasi mezzora. Ma è un caso limite che resta unico nella mia memoria. Comunque quel cane è rimasto in ferma così a lungo perché mi sentiva nelle vicinanze ed aspettava che io arrivassi a servire la ferma. Se il cane è in ferma da solo e la selvaggina regge per un’ora.…forse lui resta là fermo per un’ora?. Certo che no: ad un certo momento il cane fa volare e se ne va, non foss’altro che per ricollegarsi al suo conduttore. Quindi tutti i cani, se necessario, concludono autonomamente la ferma; alcuni soggetti particolarmente dotati riescono però ad associare la forzatura con il buon esito della fucilata: come ho detto, roba da artisti, alla formazione del cui comportamento mi pare di aver qui formulato una plausibile ipotesi.

In un altro mio articolo sui problemi dell’accostata, ho scritto che – al di là di quanto può essere richiesto nelle prove – il problema sussiste nella fase di addestramento che il più delle volte avviene su selvaggina di voliera appena immessa sul terreno e che, come tale , è molto spesso restia a volare. Da cui la necessità o di far eseguire l’accostata, o di provocare deconcentrazione del cane sopravanzandolo per causare noi il frullo. A questo proposito ho visto all’opera un espediente molto interessante. È noto che tutti i cani fermano egregiamente i piccioni, o quantomeno li trattano altrettanto bene che una starna di voliera, o una quaglia d’allevamento o un fagiano che puzza di mangime. Esistono in commercio delle speciali cassette con pareti di rete, dentro le quali si inserisce un piccione; un comando elettronico a distanza – azionato dal conduttore – fa collassare le pareti della cassetta il cui fondo imprime anche una spinta in alto al piccione, provocandone quindi con certezza l’involo. La cassetta viene collocata in un campo d’addestramento con vegetazione piuttosto consistente e celata in un ciuffo d’erba o in un piccolo cespuglio. Il cane, sciolto a favore di vento, non mancherà di fermare a buona distanza il piccione nella cassetta; dopo di che, quando il conduttore lo affianca per servire la conclusione della ferma, il telecomando – da lui attivato – fa aprire la cassetta e determina la partenza del piccione. La domanda è: perché un piccione? Perché allo scopo si usano piccioni viaggiatori, che tornano puntualmente a casa e quindi sono riutilizzabili all’infinito. Perché i piccioni viaggiatori, in quanto ottimi volatori, danno la certezza che, quando la cassetta si apre, partono come saette ed il cane non ha alcuna tentazione di abboccarli. Se si adopera una quaglia o una starna di voliera, c’è l’eventualità che l’uccello, ancorché proiettato fuori, ricada a terra ed induca il cane a tentare di abboccarlo. È un espediente che – limitatamente all’insegnamento della correttezza al frullo – ho visto messo in pratica con ottimi risultati; forse impianterò la piccionaia sul fienile della mia cascina. Ma torniamo dove eravamo rimasti, cioè alla conclusione della ferma.

Non sempre la ferma valida si conclude con la partenza a volo della selvaggina, che potrà invece allontanarsi a piedi, creando i presupposti per la guidata, grazie alla quale il cane la segue prudentemente così da mantenere il contatto olfattivo. E qui si verifica un’altra corbelleria, frequente soprattutto fra i di giudici d’oltre confine, i quali pretendono che il cane esegua la guidata solo a comando (come esplicitamente previsto dal Regolamento internazionale della FCI!). Se il cane – malgrado la selvaggina si allontani a piedi – resta in ferma ad attendere il comando del conduttore, è probabile perda l’emanazione, per riagganciare la quale non può che riprendere la cerca. Quindi la “guidata a comando” è una contraddizione concettuale, perché non è più “guidata”, bensì un “rinnovato contatto”. Non solo, ma il conduttore non è in grado di sapere se le starne si son allontanate a piedi oppure se sono rimaste dove il cane le aveva fermate. Di conseguenza nell’ordinare al cane di guidare, non sa se sta chiedendo di eseguire la “guidata a comando” o la esecrabile “accostata” che per definizione provoca il frullo mentre il cane è in movimento. L’unica interpretazione tecnicamente e concettualmente plausibile è quindi che il cane inizi la guidata spontaneamente allorché avverte che la selvaggina si allontana a piedi, per rimettersi in ferma non appena quella smette di pedinare, cioè quando si ricreano le condizioni oggettive per rinnovare la ferma. E se le starne si mettono in volo mentre il cane sta guidando? A rigor di regolamento è un errore del cane, che ha fatto un passo di troppo o troppo svelto perché – come abbiamo già constatato – se la selvaggina non è “forzata” non si mette spontaneamente in ala mentre sta camminando, ma prima di frullare si ferma per verificare quanto grave è l’incombente pericolo. Ed il cane sapiente si ferma lui pure, concludendo così un’impeccabile azione di caccia. In questi casi comunque il criterio di giudizio deve essere subordinato all’esito dell’azione in termini venatori: se la conclusione della guidata non pregiudica la possibilità di una fucilata utile, allora il frullo mentre il cane è in movimento è un peccato veniale sul quale si può chiudere un occhio – magari tutti e due. Oltre a ciò, il modo con cui partono le starne può essere un indizio aggravante o un’attenuante delle responsabilità del cane: se tutto il volo parte compatto, vuol dire che molto probabilmente le starne avevano arrestato la fuga di pedina e sono stata “forzate” in volo; se invece partono in ordine sparso, una qui e poi una là, vuol dire che si sono messe in ala mentre stavano ancora correndo (anche se questo è un comportamento anomalo). Ed in tal caso il cane non ce ne può nulla, perché la caccia è fatta di regole e di tante eccezioni. E sta a noi conoscerle tutte…o quasi.

La guidata spontanea – importante nella conclusione su starne – diventa irrinunciabile allorché la ferma è su fagiano, che ancor più delle starne tenta di sottrarsi a piedi dalla ferma. E se il cane sta ad aspettare il comando del conduttore prima di iniziare la guidata, il fagiano nel frattempo è già a cento metri da lui e sarà difficile riagganciarlo. In effetti – così come la starna – anche il fagiano che si sente seguito dal cane si sottrae con cautela, (un amico dice che corre sulle ginocchia). Se invece il cane rimane fermo, lui si allontana a rotta di collo e quando arriva il conduttore per servire la ferma, è ormai chissà dove. Alcuni cinofili, che si autodefiniscono con la C maiuscola, parlano solo di starne (anche se magari di quelle vere in vita loro ne hanno cacciate poche) e considerano i fagiani selvaggina di serie B. Ed invece i fagiani (quelli veri) sono selvaggina molto impegnativa che richiede cani dotati di qualità naturali non inferiori a quelle di uno starnista.

Vi ho esposto cose note – o che dovrebbero essere note – ma che magari non vengono frequentemente analizzate a supporto dell’interpretazione del lavoro del cane. Quindi nulla di nuovo sotto il sole, se non il tentativo di dare una lettura dei comportamenti del cane che ridimensiona quanto asserito da alcuni tecnici, così definiti in quanto hanno sostenuto un esame che li abilita a stilare classifiche e qualifiche, ma che non è il crisma di chi possiede l’esclusiva delle verità. Da parte mia non ho fatto asserzioni gratuite, ma ho cercato il consenso di chi mi legge argomentando sulla base di fatti verificabili. Se ho ragione o torto, decidetelo voi.