Spendiamo qualche parola per chiarire perché la “regina del bosco”, l’”arcera”, la “mordorée”, la “dame aux feuilles mortes”, la “signora dagli occhi di velluto”, abbia il potere di smuovere tante persone nella ricerca “di un uccello che potrebbe anche esserci, ma che nella maggior parte dei casi non c’è” come magistralmente scrisse l’indimenticabile Gin Bardelli.

La beccaccia compare, a volte in buon numero, in una stagione in cui l’altra selvaggina reperibile con i cani da ferma è molto rarefatta. Inoltre è uno dei pochi selvatici ancora genuini. Non dimentichiamo poi la speculazione che il turismo venatorio impernia su questo mito.

Resta il fatto che è l’unica specie che offre la possibilità di incontro ai nostri ausiliari in tutte le regioni del nostro Paese e per un periodo piuttosto prolungato.
I fattori emotivi trasformano poi il “generalista” in specialista monomaniaco (come si autodefinì Mario Araldi, altro indimenticabile scrittore di caccia) che potremmo individuare nei seguenti:
-l’estetica: gli splendidi e delicati colori del bosco d’autunno e della beccaccia;
-la buona qualità dell’ambiente dove si svolge la ricerca;
-la difficoltà di osservarla senza la complicità-amicizia del nostro cane;
-l’imprevedibilità, tipo “benedizione del Cielo”, del suo arrivo e la sua estrema diversificazione del comportamento individuale, impossibile da ridurre in schemi;
-il ritmo, cioè la ricomparsa in luoghi e tempi ricorrenti che ciascuno ha scoperto e maturato da sé e per sè;
-l’illusione, (e il tentativo) di fermare il tempo, almeno per quei pochi giorni l’anno, innescando una serie di agganci con il nostro passato felice e con gli attori che in esso si muovono e dal quale riaffiorano.

In definitiva si tratta di un rapporto “esoterico”, da iniziati, metapsichico che si instaura tra il beccacciaio e la sua preda, o meglio fra la sua anima e l’anima “cosmica” che la beccaccia incarna, piccolo cuore-cervello piumato, dai grandi occhi, che percorre le vie stellate del nostro emisfero e che noi a volte riusciamo ad intercettare, magicamente, purtroppo uccidendolo, viscerale coinvolgimento sacrificale con una parte di quel che resta del mondo vivente ancora genuino.

Dopo decenni di osservazioni, di coinvolgimento emotivo e sensoriale, in ottobre e marzo, quando avverti sulla pelle il richiamo delle migrazioni, la beccaccia è nell’odore e tessitura dell’aria. La grande pellicola vivente che scorre ritmicamente da nord a sud, e viceversa, ricoprendo la Terra è un fatto coinvolgente e sconvolgente. Devi andare a vedere se è arrivata.

Succede soprattutto di notte.

In autunno quando la tramontana “scura” schiaccia le nuvole a formare un cappello sui monti definendo una riga netta sul loro fianco multicolore.

In primavera, quando lo scirocco tepido, cavalcando una ridda di nuvole, spinge i migratori a nord.

Ci sono giorni in ottobre che, cercando fagiani, ti sorprendi a illuderti di vedere la sagoma della regina comparire in un varco del bosco, sono quelli in cui avverti la spinta a migrare e da quel momento in Europa occidentale centinaia di migliaia di uomini, come zombi, si “perdono” nei boschi a cercar beccacce.

Tre volte la settimana, ancor oggi nelle mie “transumanze” autunnali oltre appennino, vedo la pelle della terra che cambia colore, sfumando a seconda del clima, con le strinate dei primi geli dove spazza la tramontana: dal verde ormai meno carico, al giallo, al ruggine, al rosso. E mentre penso alle beccacce in arrivo mi tornano in mente le spalle selvaggiamente scoscese della val Roja, durante i trenta e più anni che l’ho percorsa andando e venendo per Casterino, con le sue macchie carminio e gialle, alternate a sempreverdi, contro la pietra grigia del suo scheletro. Ero sovente solo e mi crogiolavo a cantare, ripercorrendo i miei repertori preferiti di Modugno e De Andrè, i due “giganti” dei miei begli anni, tuttora insuperati. Un senso di nostalgia, malinconia morbida, quasi deliquio…..

Considero qualcosa più di un caso, forse un “segno del destino”, che dopo decenni che a Genova abito nella stessa casa e frequento la stessa Chiesa (S.Teresina), nel 2005 sono venuto a conoscenza che nel fregio marmoreo che delimita un grande quadro della Madonna nella navata destra, è raffigurata una beccaccia (e due pernici), opera dello scultore genovese Garaventa, cacciatore e grande appassionato di bracchi italiani. Il Parroco don Franco Castagneto, ne aveva inserita una foto – proprio con quel particolare – nel calendario annuale!

Parimenti la coincidenza che – come ho già ricordato – esattamente sulla Casa Nuova in Piemonte, acquistata nel 1987, sovente al crepuscolo serale del tardo autunno passi la beccaccia, appuntamento e benedizione.

Ogni beccacciaio ha cominciato a suo modo: i puristi, con tradizioni famigliari, gli avventizi per gradi, passando per altre cacce, molto meno “nobili”.
Ma la caccia è poi “nobile”?

Non credo, tanto più come viene concepita oggi. E’ solo un retaggio, iscritto nel nostro DNA, che la “deriva genetica” non è ancora riuscita a cancellare in alcuni di noi, e come tale da gestire, “cum grano salis”.

Certamente molti, più esigenti, ci sono arrivati quasi per forza scartando cacce addomesticate, su animali allevati. E ci sono rimasti. La beccaccia affascina…eppoi si rinnova nella stagione…è la manna dal cielo…quando non c’è più nulla, una beccaccia può sempre esserci. Rappresenta la speranza. E permette al cane di cercare qualcosa e, poi, di specializzarsi.

Tuttavia sulla beccaccia sovente costruiamo idee, convinzioni e abitudini (sue e nostre) che a volte risultano sbagliate o superate: lei infatti è una realtà dinamica, in continuo, automatico, adattamento a quella, altrettanto in divenire, che è l’ambiente…mentre noi siamo assai più lenti a capire ed adeguarci e….restiamo indietro!

Questa monomania, crescendo, può portare all’esasperazione e all’eccesso. Così non si rispettano i limiti e l’etica venatoria (se esiste), si va a caccia all’estero, laddove si fanno i numeri (la scusa è sempre quella di “fare il cane”), si cade nell’agonismo (e nel caso della beccaccia è ancor più grave).

Un tentativo di mitigare l’entusiasmo irresponsabile, può condurre ad una sana maturazione del beccacciaio che in definitiva dovrebbe desiderare:
-di vedere più beccacce possibili
-di prelevarne un numero soddisfacente, ma non eccessivo (1/giorno e 20/anno dovrebbero bastare)
-di contribuire alla conoscenza e alla ricerca, per arrivare ad una gestione sempre più realisticamente responsabile
-di rispettare la sua preda, ciò significando di non perseguitarla con mezzi troppo sofisticati e nei periodi di particolare criticità ambientale, oltre ad evitare di esibirne il cadavere, come trofeo, peggio se tirato fuori dal tascone della cacciatori con le piume arruffate come uno straccio…Ricordo che il Marchese Agostino Pinelli Gentile di Tagliolo Monferrato portava sempre seco qualche fazzoletto bianco di lino onde avvolgere la beccaccia abbattuta dopo averne ben lisciato le penne, prima di metterla nella carniera!

La beccaccia in definitiva riunisce in sé alcune “realtà” impalpabili tra loro concatenate, necessarie, almeno a certi uomini: bellezza – illusione – sogno – risveglio – disillusione, che ho cercato di sintetizzare in una breve poesia

LA BECCACCIA TRASPARENTE

Da ottobre a dicembre
Sulle nostre notti agitate
stende le grandi ali
trasparenti
la beccaccia del sogno.
Attraverso di esse
passano i raggi pallidi
del sole autunnale,
le tremolanti,
vivide luci delle stelle
nel grande cielo notturno,
le immagini dei ricordi,
delle illusioni,
delle speranze.
Solo a gennaio
le ali distese
diventate di ghiaccio
si frangeranno sullo spigolo
della stagione che chiude,
e torneranno grandi foglie
secche
in attesa della spinta
dell’erba nuova che sorge

Stralci dal Libro “Io me i miei cani” di Silvio Spanò (2009)