Foto di Angelo Lasagna

Alla conclusione, dovuta all’anagrafe, della mia esperienza di allevatore e addestratore di cani da ferma (utilizzati a caccia), iniziata nel 1953, per pura passione, ho maturato alcune opinioni frutto di un’esperienza individuale. Ho cacciato prevalentemente starne nelle sterminate pianure dell’Est Europa che, a mio avviso, restano per il cinofilo allevatore l’unico vero laboratorio per i confronti e le verifiche dei suoi esperimenti, ed ho potuto osservare che fino a 20/25 anni or sono, gli effetti della pressione selettiva sui cani si potevano osservare già dopo due o tre generazioni, mentre da allora gli sforzi tesi ad ottenere miglioramenti genetici risultano sostanzialmente sterili.

L’allevatore amatoriale è obbligato dalla limitazione dei mezzi disponibili a seguire criteri empirici, ma se pensiamo all’allevamento dei cavalli da corsa degli emiri arabi, nei quali le risorse finanziarie, scientifiche, dimensionali e organizzative sono praticamente illimitate, constatiamo che anche li i campioni sono rari come sempre, e che la velocità di punta dei migliori è rimasta invariata da molti anni.

Del resto anche in natura la selezione naturale ha per scopo una stabilizzazione conservativa ma non migliorativa.

Tutto ciò mi porta a pensare che la pressione selettiva del cane da ferma abbia raggiunto il suo “picco evolutivo”, cioè il limite biologico che rende difficile e poco significativo ogni ulteriore progresso.

La cinofilia venatoria si propone di incrementare la “resa venatoria” del cane da lavoro, che è frutto della sinergia tra dotazione genetica e stimoli dell’ambiente faunistico di iniziazione, e perciò esaurite le potenzialità della selezione non resta che accertare se dal processo di maturazione del cucciolone possano emergere margini compensativi di miglioramento, ancora non sfruttati completamente.

Se riflettiamo sul processo formativo della tecnica venatoria da parte del cucciolone, constatiamo che mentre in natura i cuccioli dei predatori imparano questa dalla madre o dai membri esperti del branco, il cane non è in grado di apprenderla per imitazione degli altri.

Ma la selezione in compenso ha reso l’apparato neuronale del cucciolone “plastico”, nel senso che durante il suo periodo sensibile (che va dagli 8/10 mesi ai 24/30) per effetto degli stimoli esterni la sinaptogenesi è in grado di autodeterminare le strutture e le funzioni che presiedono ai processi di omeostasi sensoriale del cane e alla costruzione della sua capacità di apprendimento, quella che presiede alla registrazione degli stimoli esterni, alla loro metabolizzazione e alla conseguente elaborazione di specifiche reazioni congrue, che per effetto della stabilizzazione sinaptica selettiva, si fissano in quei comportamenti non più modificabili, che costituiscono la tecnica venatoria del cane.

Perciò la “resa venatoria” del cane maturo viene a dipendere direttamente ed in misura determinante dagli stimoli dell’ambiente faunistico di iniziazione, in quanto il “programma venatorio” del cane (senso del selvatico, facilità di incontro, capacità di fermare il selvatico alla distanza “giusta” per impedirgli la fuga di piede senza obbligarlo all’involo) si adegua alle difficoltà incontrate durante l’iniziazione. Osservando ciò che comunemente avviene nel mondo dei cacciatori, trovo conferma di queste ipotesi.

Oggi i cacciatori allevano, tengono in casa e iniziano i loro cuccioli nell’ambiente e sulla selvaggina che sono soliti cacciare, e i loro cani automaticamente si conformano a ciò che è richiesto da questo ambiente di iniziazione e ciò con piena soddisfazione dei loro padroni.

Sul piano pratico una regola facile da applicare per avere un cane adatto al proprio modo di cacciare, è iniziarlo nell’ambiente faunistico simile a quello nel quale si dovrà utilizzarlo.