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Nei tempi che attualmente viviamo, esistono contingenze che hanno imposto la visione d’una prospettiva modificata rispetto a qualche assunto che ritenevamo immutabile. Si tratta di cose grandi e piccole, di eventi, di costumi, di innovazioni. Anche nel nostro piccolo orticello di cacciatori cinofili, iniziamo a prendere atto di situazioni che, fermi nell’immaginario puristico, fino all’altro ieri ritenevamo inaccettabili. Il primo di questi capisaldi è l’attività dei cani da ferma britannici.

Le galoppate naso al vento e gli ampi incroci che le spole bianche ci hanno sempre offerto con generosità, nella situazione odierna trovano sempre meno il modo di poter essere esplicati con dovizia, frapponendosi ad essi i cento ostacoli rappresentati dal pullulìo di divieti vecchi e nuovi, dall’estensione eccessiva di colture ad alto stelo come girasoli o granturchi, e dalla conseguente nefasta concentrazione di cani e cacciatori nelle medesime zone, con svantaggi per tutti e soddisfazioni per pochi. Quanto è importante oggi, ai fini pratici, la cerca incrociata che i cani inglesi debbono svolgere per obbligo di blasone? Poco o niente, verrebbe da rispondere: e non sbaglieremmo. Tuttavia l’animo cinotecnico riesce ancora ad avere la meglio, per fortuna, sulle considerazioni pragmatiche e ci suggerisce di non liquidare bruscamente un argomento delicato come l’analisi etico-stilistica di un gruppo di razze, le quali, se hanno avuto successo in Italia, vuol dire che a qualcosa sono pur servite. Come sempre, quindi, quando i miei limiti me lo impongono, chiedo lumi a chi ne sa di più.

Colombo1137Scorro le pagine ingiallite e morbide di uno dei testi sacri della cinotecnìa nazionale, quel “ Cane da ferma, chi è e cosa fa..” di Giulio Colombo uscito subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1947, per i tipi dell’Enciclopedia Della Caccia di Milano. Il vate lombardo, con la chiarezza che gli è sempre stata propria, risponde prontamente e mi fornisce alcuni spunti di riflessione: “ Siamo a caccia e dobbiamo prima di tutto risolvere una pregiudiziale: quando è possibile la cerca incrociata? Quando nessun ostacolo si frappone all’itinerario progressivo del cane. E’ utile sempre abituarlo al metodico rastrellamento del terreno, perché, trovandosi nella condizione di potere, non trascuri di farlo, ma teniamo presente anche di non pretendere l’impossibile, perché l’utilità di una pratica non ha niente a vedere con la sua possibilità. Quando il selvatico si presti, bazzicando al pulito: stoppie, prato, brughiere e talvolta vigneti. E’ tassativamente ineffettuabile in estate ed autunno con frutto pendente, nei mais, nei migli, nelle melichette, in ogni sorta di folti a ceduo, nei canneti; superflua e gratuitamente estenuante, in montagna; ridicola e dannosa in marcita, nei risi, nei paduli e nei boschi; a beccacce.”

Se ci premuriamo di analizzare la risposta del maestro, scopriremo facilmente che egli ha escluso il novantacinque per cento dei tempi e delle situazioni venatorie del nostro paese, salvando agli effetti pratici solo le stoppie e i prati. Di questi ambienti diremo che le stoppie sono figlie di colture ad alto fusto che hanno sussistito per quasi tutto il periodo di caccia, e i prati si riducono in sostanza esclusivamente a quelli d’erba medica, poiché in montagna sono per lo più ormai inseriti in contesti di parchi, oasi e riserve di genere vario. Con la stessa serenità però, dobbiamo considerare la prescrizione con cui Giulio Colombo apre la sua risposta, ovvero la necessità che il cane venga abituato ad incrociare perchè lo metta in pratica non appena gli è possibile, in un soffio cinofilo da cogliere nella più robusta affermazione da pragmatico cacciatore che vi si legge. Guardate però, che questa risposta di settant’anni fa, non è di quelle leggere: decenni e decenni di prove, selezioni, campionati avrebbero avuto l’unico scopo di mantenere determinate attitudini razziali che nella sostanza pratica servono in rare occasioni, e dunque, alla fine la pretesa d’una cerca incrociata nei nostri territori, sarebbe un modo per mantenere l’ancora allo standard ma poco o nulla di più. Non può sfuggire infatti, nemmeno al più integrale dei puristi, che se l’assunto aveva una sua forte validità allora, adesso sarebbe da elevare al cubo, considerate le generali contingenze della caccia e del territorio.

19Sentiamo ancora Colombo: “L’incrocio non è schermaglia temporeggiatrice né esercitazione elegante e comoda per chi vuol godere il lavoro del cane, ma mezzo efficace per esplorare tutto il terreno, non lasciando possibilmente alcuna zona dove il selvatico possa sottrarsi all’olfatto del cane. Ma l’olfatto del cane non ha bisogno sempre di incrociare per percepire l’emanazione e se, stoppia o prato son tali da poter essere battuti in quattro folate da un galoppatore veloce, è assurdo imporgli l’incrocio per un ipotetico incontro che l’olfatto deve, se appena normale, avvertire con la sola panoramica esplorazione. Qualche cacciatore novizio ligio ai sacri dettami dei testi, più che ferrato di personale pratica venatoria, si smarrisce in giochetti ai quali il cane, se poco intelligente, si presta.”

Cosa altro aggiungere a quanto non abbisogna di commento? Solo quanto ancora una volta il grande cinofilo milanese dimostri d’essere un ancor più grande cacciatore, attento si ad un’ortodossia appena sopportata, ma altrettanto puntuale nel sostenere senza retorica come tutto debba sempre essere visto nell’ottica dell’azione venatoria e nella sua economia strategica. E non manca, poche righe appresso, di punzecchiare e d’agganciarsi proprio ai grandissimi, ossia ai due sommi profeti del Cane d’Albione: William Arkwright e Edward Laverack, i papà del pointer e del setter inglese: “Arkwright e Laverack trattano esclusivamente di grouses e starne in terreni, quali le moors della Scozia, dove l’incrocio è non solo possibile, ma indispensabile…. Nei terreni dove cacciamo noi, e con la selvaggina varia ( e scarsa ) stanziale e di passo, non è tanto il metodo prestabilito che giova, quanto l’intelligenza, l’iniziativa, l’esperienza, la conoscenza e l’adattabilità ai luoghi da parte di cane e cacciatore.

Vorrei vedere ( e forse anche lui) come se la caverebbe Arkwright col suo schema di perfetto incrocio, in talune nostre contingenze. Ma Arkwright non ha scritto per noi ed il torto è nostro, di volerlo condire con tutte le salse, spesso senza capirlo.”

Direi che quest’ultima frase può essere individuata come la chiave di tutta discussione, fornendoci in aggiunta un importante elemento su cui riflettere: quanto abbiamo sbagliato nell’aver voluto per forza dare la precedenza a razze che non erano state create per noi? Perchè abbiamo preferito i cani inglesi, selezionati in altri ambienti e lì sviluppati con pienezza d’espressione, forzandoli in tutti i modi ad adattarsi ai nostri? Attualmente una risposta non so darla, anche perchè in cima alla lista di quelli che hanno fatto la scelta del cane da ferma britannico ci sono io, che predico bene e razzolo male, e contento sì d’averla compiuta, ma nello stesso tempo pervaso da un alito di sottile rimorso.

ColomboScrive Giulio Colombo: “Ho cacciato dall’età di quattordici anni sempre, nessun anno escluso, e niente, fuorché una paralisi, avrebbe potuto fermarmi, ho frequentato cacciatori di fama e di esperienza grandissime, ho perseguito rabbiosamente le selvaggine più disparate al piano ed al monte, ho combinato carnieri invidiabili ed invidiati e non ho mai, sul terreno della caccia pratica, mai, sentito parlare di incroci predisposti come misura ampiezza e distanza, bensì di cani che sapevano dove scovare la selvaggina e di altri che portavano a spasso la coda il collare e il proprietario. Questo, che ognuno può controllare da sè, deve pur rispondere ad una ragione. Si parla dell’incrocio, lo si descrive, se ne tracciano itinerari, come se fosse obbligatorio e senza discussione applicabile ad onta di ostacoli e natura del terreno, grande demerito del cane non praticarlo, del cacciatore non imporlo. La parte per il tutto. Si dimentica che altro è dettare regolamenti a tavolino, spesso da tecnici che la caccia non praticano, ed altro è scovar selvaggina. Il cane che abbia senso del selvatico, scoverà mille volte più di un sapiente galoppatore da maneggio, che usi la suola per battere terreno inutile.”

Quantum est in rebus inane….scriveva Persio nelle sue Satire: quanto c’è di vano nelle cose! E pur tuttavia siamo uomini, e la vanità è una compagnia a cui sarà impossibile poter rinunciare…