Archivio (179)

Astro- il mio campione a caccia-

La seconda guerre mondiale era terminata da poco quando venni al mondo, e la ricostruzione portò a lavorare in fabbrica molte persone, compreso i miei genitori. Praticamente venni allevato dai nonni e dalle zie, in una famiglia composta dai nonni e dodici zii, che uno alla volta prendeva la propria strada. C’erano gli zii Giglio e Gianni i più giovani fra i maschi, che lavoravano in Svizzera, posavano binari per le nuove ferrovie, tornavano a casa una volta l’anno quando apriva la caccia. Che bello quando arrivavano, nella casa colonica di colore giallo l’atmosfera era di festa, arrivano gli zii dalla Svizzera, portavano cioccolato e sigarette, tanti pacchetti di sigarette, di qualità diverse, c’erano quelle per lo zio Domenico, quelle per lo zio Pasquale, quelle per papà, qualche sigaro per il nonno e tante qualità diverse di cioccolato. Zia Armida e Romana erano ragazzette ancora da maritare ed erano loro che mi accudivano.

La mamma che lavorava nel vicino lanificio faceva i turni, veniva spesso a trovarmi, arrivava in bicicletta suonando il campanello ancora in fondo alla strada polverosa, appena dopo aver attraversato i binari delle ferrovia. Papà Guerrino faceva i turni di notte, smontava alle sei del mattino ma aveva un secondo lavoro, come boscaiolo o minatore, sapeva sparare le mine e dedicava solo qualche ora il pomeriggio per il riposo. Lo vedevo poco e quando passava lui a vedermi il rispetto che le zie gli portavano già bastava per mettermi in suggestione. Poche parole, e qualche incitamento dalle zie “dai saluta il papà ” ma in quel periodo troppo poco lo vedevo per affezionarmi. Il nonno, con i lunghi baffoni che richiamavano i nobili della passata monarchia, ma soprattutto la nonna, erano i miei riferimenti. Nonna Francesca, continuò a mettermi 100 lire in tasca tutte le domeniche fino a che andai militare. Di corporatura robusta con una lunga treccia di capelli neri che arrotolava sul capo, quanto era tenera con me, che pure ero cagionevole di salute, ricordo che un quadretto di cioccolato svizzero non mancava mai quando di sera, zia Romana mi faceva la puntura. Annesso alla casa colonica c’era la stalla il fienile, la tipica piccionaia con le feritoie nei mattoni, sotto le balle di paglia e di fieno viveva il segugio a pelo raso del nonno, che con lo zio Giglio e Augusto usava per andare a lepri. Lo zio Domenico andava a beccacce ma da quando era sposato viveva a Sopraponte. Quante storie ho sentito raccontare la sera nella stalla dal nonno, dagli zii, raccontavano delle orecchiuta delle sue furbizie e di come Lampo, il segugio, le aveva sventate le sue astuzie e intanto si sgranava il granoturco. Passa qualche anno e papà si accorda con lo zio Gianni per costruire un roccolo per l’uccellagione in Selvapiana, una località a circa mille metri di quota priva di strada carrabile. Un’ impresa per qui tempi, il materiale che serviva veniva trasportato a dorso del mulo di Felice di Selvapiana, per la verità solo il minimo lo portava il mulo il resto stava tutto sulle spalle del papà e dello zio che aveva perso il lavoro in Svizzera. Questa attività infatti era un modo per inventarsi un lavoro, trovare il modo di guadagnare qualcosa, lavorare divertendosi, anche se il bilancio sottratto alle spese per l’acquisto delle reti e materiali vari, senza considerare le ore di lavoro si dimostrò ben poca cosa. Così giunse anche il giorno in cui anche le mie spallucce dovettero fare la loro parte, il viaggio di una mezz’ora da dove si poteva arrivare con la macchina, non era mai fatto senza niente da trasportare. Ci vollero un paio di anni di lavoro, per la costruzione della baita di assi di legno per viverci in due da Agosto a Dicembre, la sentinella a due piani per uccellare, la preparazione delle piante, con le varie potature la posa a dimora di nuove, la preparazione dei sostegni per le reti e poi finalmente inizio l’uccellagione. Dove io avevo una parte attiva da Agosto a Ottobre allora le scuole iniziavano tardi, poi tutti i fine settimana. I miei compiti principali consistevano nel pulire le reti dalle foglie, consegnare gli uccelli catturati al punto di raccolta, catturare i grilli e cavallette a sufficienza per far vivere gli uccelli catturati e che vendevamo già in grado di mangiare la miscela. Il guadagno era maggiore nel fornire uccelli già pasturati e, se serviva, procurare l’acqua potabile che era ad un’ora di strada, ovviamente da portare in spalla. Fatto questo lo zio mi prestava la sua doppietta calibro sedici e potevo andare a sparare alle allodole e prispole che abbondavano nei prati. Fu la mia scuola di tiro al volo, ci misi un bel po’ prima di colpirne una, poi di sera si andava ad aspettare che la lepre uscisse in pastura nel prato. Questo caccia si faceva ad Agosto poi, per Ottobre con Dick il setter bianco nero dello zio Gianni, una volta finiti i lavori al roccolo a volte di pomeriggio restava qualche ora per un giro a cercare beccacce, soprattutto, come capitava spesso durante i viaggi di consegna degli uccelli catturati, la “Regina” sì involasse davanti ai miei occhi. Le prima sera che uscii per aspettare la fantomatica imprendibile lepre, quella che beffava i segugi del nonno, lepre che mai ebbi la fortuna di vedere fu una notte di luna piena. Dopo la frugale cena preparata dallo zio Gianni, lui con il calibro 12 e io con la doppietta calibro 16, piano cercando di fare meno rumore possibile, ci piazziamo nel prato nei punti stabiliti dallo zio, che mi aveva ben istruito. Ero alla mia prima esperienza e ad ogni minimo rumore nella notte, mi poneva delle domande, quante cose ho imparato in quelli anni, oggi servono almeno un paio di lauree in Ornitologia e Scienze Forestali per conoscere tutti gli uccelli che conoscevo, piante, arbusti, la potatura, gli insetti, anfibi, la migrazione degli uccelli, quali arrivavano prima, sia come specie che come sesso. Il cielo stellato la rugiada, la brina, le stagioni vissute all’aperto. Intanto aspettavo la lepre, mi ero seduto per terra con il fucile sulle gambe, ma dopo un oretta avevano iniziato a farmi male la schiena, le gambe non le sentivo più, ma non dovevo muovermi: questo era l’ordine. L’ora seguente fu un vero tormento, le gambe bene o male riuscivo a cambiare posizione e trovare sollievo, ma la schiena mi doleva forte! Finalmente un fischio e un’ombra si avvicina era lo zio, si rientrava. La sera successiva avendo notato che poco lontano da dove mi ero appostato c’era una recinzione di fili metallico per le mucche e ogni tanto come sostegno un paletto di legno, avevo deciso di spostarmi un poco per poter appoggiare la schiena al paletto, oh che sollievo stare seduto con la schiena appoggiata. Passa un po’ di tempo e fra me penso che sbagliando s’impara, stasera potrò aspettare il segnale di rientro molto più comodo, solo che dopo un po’ sento pungermi sul collo, riesco ad acciuffare l’insetto che schiaccio fra le dita è una formica. Si ma non è l’unica il paletto è un via vai di formiche che mi pungono da tutte le parti. Speriamo almeno arrivi la lepre, ma niente. Ancora una volta è il fischio dello zio a salvarmi. Questo mi fece passare la voglia e la passione di cacciare le lepri imprendibili con i segugi. La passione per la cattura degli uccelli già mi era passata quando di notte con la lucerna a petrolio dovevo alzarmi a togliere foglie dalle reti. Un giorno di Novembre, pioveva e tirava vento, lo zio era sceso in paese per un funerale e papà come al solito era tornato pure in paese, era sempre nel turno di notte, io ero rimasto solo alla baita. Per un po’, seduto vicino al fuoco con il fumo che invadeva fino a metà il locale, mi ero divertito a tirare nel fuoco palline di polvere nera che papà usava a caricare le mine. Le fiammate che si alzavano a ogni lancio con vampate di cenere mi facevano immaginare la scena di un bombardamento aereo. Poi, dopo aver consumato una manciata di polvere nera, decidevo di sdraiarmi sulla branda dello zio. Nella Baita si erano ricavati due posti letto usando pali di castagno e una tela molto resistente, erano a castello, il mio posto era quello più alto, di giorno a il fuoco acceso normalmente invaso dal fumo costante nella baita, essendo solo mi sdraiavo sotto e mi addormentavo. Passa un po’ di tempo e mi sveglia un rumore contro il bidone della raccolta dell’acqua piovana: prendo il fucile e esco a controllare, cavolo metà mandria di mucche stava pascolando fra le reti. Qualcuno aveva lasciato aperto il cancello e adesso ero dentro, il roccolo e tutto recintato, pioveva ancora e c’era nebbia: “Se una mucca s’impiglia in una rete – mi ero detto – sai che disastro”. Ero corso a verificare: infatti il cancello a ovest era aperto, dovevo trovare il modo per farle uscire, augurandomi di non farle correre di riuscire a muoverle piano; sapevo che se ne indirizzavo una, forse le altre avrebbero seguito. Proprio quando non si sa cosa fare, arriva un’idea che mi sembra quella buona: entro in baita prendo il sacchetto di sale grosso e chiamando con il tono del mandriano cerco di farmi seguire dando sale alla mucca più grossa. Sembrava funzionare, mi seguivano, e così altre tre s’indirizzano e, con mio grande sollievo riesco a farne uscire cinque, ne restano due le più piccole, probabilmente conoscono meno il sale. Con cautela ne avevo avvicinata una ma era riluttante, e dopo vari tentativi si era imbizzarrita e, seguita dall’altro vitello, aveva cominciato correre, infilando la rete di roccolo, la più grande, sfondandola senza nessuna difficoltà e, non scherzo, addirittura saltando il recinto come se fosse un gioco, la seconda segue e trascinando via metà rete e, pure lei saltando la recinzione. Chiudo il cancello e vado a verificare i danni, tento anche un’inutile riparazione di fortuna ma il danno è fatto: un grosso danno. “Bene, ora non mi resta che aspettare domani”, mi ripetevo cercando una spiegazione da dare a papà. La verità, e la spiegazione migliore era in realtà molto semplice: non era colpa mia se qualcuno aveva lascito aperto il cancello, l’ultimo a uscire era stato il papà. Sì ma, il giorno dopo non evito comunque che la colpa sia la mia, papà disse che era mio compito controllare i cancelli. I danni troppi, l’annata maledettamente piovosa i conti non tornano: si chiude il roccolo. Papà lo trasformerà in un capanno per suo uso e io, che nel frattempo avevo compiuto sedici anni avevo preso il porto d’armi e il mio primo setter femmina, Lola, e inizio con le prime esperienze. Nel frattempo altri passatempo mi distraggono, solo dopo i 23 anni inizio davvero a mettere frutto le prime esperienze, e il setter e le beccacce, diventeranno la mia passione. Ma solo dopo il mio Astro e abbondantemente dopo i trent’anni posso dire che sono diventato un beccacciaio.

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